COWT12

Feb. 19th, 2022 04:32 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Vitalità
Titolo: 
Il gallo canta e il lupo ringhia
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: Werewolves

<Vai a impiccarti sul primo abete che trovi.>

Camillo non era sicuro che il messaggio fosse stato recepito. Colpa sua: aveva ringhiato, un bel ringhio da bestia infastidita, suo padre avrebbe dovuto esserne fiero.

Eppure Billy non sarebbe stato Billy se si fosse lasciato intimidire da una banalità del genere. Si mosse, nel buio della tenda dove si distinguevano a malapena le forme, e scosse di nuovo Camillo per un fianco. 

<Dai, alzati. E’ l’alba.>

Per il Grande Fratello, era l’alba. <Appunto.> Come faceva ad essere già in piedi e rompicoglioni? 

Camillo si raggomitolò il più possibile nel sacco a pelo, tirando il cappuccio fin sotto il naso. Billy riuscì comunque ad infilarci una mano sotto e ad accarezzargli qualche ciuffo. Mentre sussurrava paroline dolci per farlo cadere in trappola e mollare la chiusura della zip, le sue mani arrivarono a grattarlo dietro all’orecchio e sulla nuca, suadenti quanto il suo tono. 

<Pensa a quanto sarà bello vedere il sole sorgere sopra il lago. Niente rumori o odori spiacevoli, solo tranquillità e pace e …>

< E tre quarti d’ora di scarpinata su per il pendio.> Replicò acidamente Camillo, strisciando dentro al suo bozzolo. Se quella mano e il suo proprietario non si levavano dalle palle, l’avrebbe morsa. <Con un freddo bestiale, all’alba. All’alba, cazzo. Io non esisto prima delle dieci.>

<Mi hai promesso che ci saresti venuto con me.> Billy suonava triste e lamentoso nonostante lo strato imbottito.

<Ma non all’alba!> 

Riuscì a chiudere anche l’ultimo spiraglio del sacco a pelo e a isolarsi completamente. Respirava a malapena, ma almeno l’amico non poteva raggiungerlo. Il fatto che Billy riuscisse a essere pimpante di vita a quell’ora disumana non significava che era autorizzato a trasformarci anche lui.

Per un momento, Camillo si convinse di essere riuscito a scoraggiare l’altro. Non ci furono altre proposte, parole gentili, pacche sui fianchi. Forse avrebbe fatto marcia indietro e se ne sarebbe uscito da dove era entrato, a fare la sua dannata camminata tonificante mattutina da solo.

Un’improvvisa stretta sotto la vita e intorno alle gambe gli diede un orribile senso di claustrofobia, tanto da spingerlo ad affacciarsi. Si sentì sollevare e trascinare e l’aria fresca delle cinque del mattino lo investì, insieme all’odore pungente e indesiderato della natura. Appena capì cosa stava succedendo, prese a dimenarsi come un’anguilla.

<Mettimi giù! Mettimi subito giù!>

Billy se lo caricò sulla spalla ancora insaccato, con un sonoro “Uff” e uno scrocchio di schiena non troppo rassicurante. Gli piazzò una mano ben ferma sulla schiena e accusò tutte le sue ginocchiate con ammirevole stoicismo.

Nessuno dell’ingrata famiglia di Camillo lo sentì o, più probabilmente, si preoccupò tanto da affacciarsi alla propria tenda per vedere cosa aveva tanto da urlare.

Billy girò in tondo per un paio di volte, forse sperando di calmarlo. Invano. Camillo lo insultò finché ebbe fiato nei polmoni e fu costretto a liberare le braccia per combattere contro il suo rapitore. L’aria fredda gli fece venire la pelle d’oca. 

<Vieni a vedere l’alba con me.>

<Vai al diavolo!>

<Vieni con me.>

<Vai al diavolo!>

Riuscì a liberarsi, sì. Capitombolò giù dal lato b di Billy e finì culo sull’erba umida. Si sentì perfino vittorioso, poi si rese conto di quale prezioso ostaggio aveva lasciato dietro. Bill strinse il suo sacco a pelo come se volesse assorbirlo dentro di sè.

<Vieni a vedere l’alba.>

Andarono a vedere l’alba, lui, il suo amico e il sacco a pelo.


COWT12

Feb. 19th, 2022 03:55 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Protezione
Titolo: 
L'istinto di un cacciatore
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: Werewolves

La quinta notte di campeggio ci fu la caccia alla volpe. Al Campo Mezzaluna non era un eufemismo: una vera caccia, una vera volpe e un branco di lupi pompati e sovraeccitati. Camillo avvertì come ogni anno la tentazione di chiamare la protezione animali, così, giusto per rovinare la festa a tutti. Poi si ricordò che i cellulari, come altri apparecchi elettronici, erano banditi e che era stato costretto a lasciare il suo a casa.

A nulla valevano obiezioni come "Credo nella non violenza", "La caccia sportiva dovrebbe essere abolita" o "Sono vegetariano" - piccola bugia a fin di bene. I lupi mannari erano violenti, cacciavano e soprattutto non erano vegetariani. Non concordavi? Stavi facendo i capricci o avevi le allucinazioni.

Tutti partecipavano, in teoria. Anche i cuccioli, sebbene si mettessero subito a giocare tra loro, dimentichi di qualsiasi volpe. Anche gli anziani, più telecronisti che parte attiva dell'evento. Anche Camillo, che faceva presenza sulla linea di partenza e poi se ne andava a zonzo per tutta la notte nel bosco, finché non lo raggiungevano gli ululati di vittoria. 

Il suo amico Billy, invece, era un partecipante storico ed entusiasta. L'anno prima aveva quasi vinto, avvistando una volpe per primo, ma il premio gli era stato soffiato da sotto i denti da Susy Maddogs, lasciandolo a mordere l'aria e la sconfitta.

Camillo non fu sorpreso di trovarlo in prima linea quella notte, a guardarsi in cagnesco con Susy. Billy lo notò e raspò con la zampa sul terreno, un segno che diceva di raggiungerlo vicino ai primi alberi del bosco, dove lui e una ventina di altri lupi attendevano trepidanti il via alla caccia. Camillo scosse la testa. Lui se ne sarebbe stato ai margini e con un po' di fortuna sarebbe stato ignorato. Durante la caccia non erano rari gli scontri; per una traccia, per la priorità su una zona o, a volte, solo per semplice frustrazione.

In quel momento, Susy dovette infastidire Billy, o gli ringhiò troppo vicino all'orecchio, perché lui scatto come poche altre volte gli aveva visto fare. Liberò un ringhiò feroce e le affondò i denti nel collo, strattonandola di qua e di là. Susy se lo tolse di dosso con una zampata. Camillo vide il muso del suo amico tingersi di rosso.

Uno sgradevole grumo di indignazione gli attorciglió lo stomaco. Ringhiò anche lui, ma si trattenne dallo spiccare un balzo per accorrere in aiuto del suo amico. Era piccolo rispetto agli altri lupi, sottile e leggero. Sarebbe stato atterrato. Eppure l'istinto di protezione verso Billy graffiava dentro di lui come un falco per uscire dalla gabbia. 

La zuffa tra Billy e Susy aveva animato ancor di più il resto del branco e più di uno si aggiunse allo scontro. Se la caccia non partiva subito, la cosa rischiava di degenerare. 

Camillo perse di vista Billy. Irrazionalmente, la cosa lo spaventò più che se lo avesse visto gettato a terra e sovrastato da un altro lupo. Billy era grosso e aveva il pelo fulvo come quello dei gatti da salotto, era quasi impossibile non notarlo perfino in mezzo al branco in movimento.

Prese una decisione da cui in seguito il suo cervello si sarebbe dissociato. C’era un solo modo per distogliere l’attenzione dei lupi dalla zuffa. Senza aspettare il segnale di inizio dell’anziano Goldwin, balzò in avanti e si inoltrò nel folto del bosco, lanciando un ululato di vittoria e dando il via alla caccia.


COWT12

Feb. 19th, 2022 03:45 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Verità
Titolo: 
Narrami dell'amore, della gloria e di altre stronzate
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: Werewolves

Di tutte le attività Hippy proposte al Campo Mezzaluna, le storie e le leggende della stirpe dei lupi mannari narrate intorno al fuoco era quella che Camillo trovava più accettabile. Credeva che quei racconti fossero un mucchio di fesserie, ma era comunque un passatempo accettabile. Quando calava la notte e scendeva anche la temperatura, era bello starsene vicino al falò, con i piedi protesi verso le fiamme e le mani scaldate da una tazza di tisana, cullati dalle voci roche e costanti degli anziani nonni portatori di saggezza lupesca. 

I bambini erano banditi da quei momenti, perché incapaci di starsene fermi e in silenzio nello stesso posto per più di due minuti. I ragazzi come Camillo avrebbero dovuto esserne capaci, in teoria, ma era più facile vederli combattere contro il sonno o agitarsi irrequieti in attesa del loro sorso di sambuca. Billy - e Camillo doveva rendergliene atto - si impegnava a stare attento, ma l’effetto che le storie avevano su di lui era incredibilmente soporifero. Camillo si divertiva un mondo e vedergli calare le palpebre, poi la testa, poi le spalle. Teneva duro finché poteva, ma finiva inevitabilmente steso sul suo grembo, incosciente.

La mattina dopo, dichiarava di sentirsi in colpa per non aver ascoltato fino alla fine e lo pregava di raccontargli le parti mancanti. 

<Perché ti interessa tanto sapere queste cose?> Gli chiese una sera e il volto di Billy si spianò in una piega seria. 

<E’ la nostra storia, ciò che siamo. Girano tante balle sul nostro conto, ma questa è la verità.>

Camillo ne dubitava seriamente. 

Le loro origini, racontavano gli anziani, risalivano ai tempi bui del medioevo e una strega era la loro progenitrice. Una bellissima donna, sola e senza casa, che viaggiava senza meta, vendendo rimedi disperati in cambio di un po' di cibo e di un tetto sulla testa. Era potente e intoccabile, ma in ogni posto in cui arrivava vedeva le sue sorelle perseguitate e cacciate, uccise brutalmente senza che avessero fatto alcunché per meritarlo e la sua rabbia cresceva. Non riusciva più a sopportarlo, così una notte, mentre alloggiava in un villaggio vicino ad un bosco, giacque con un lupo e ne rimase gravida. Lasciò il bambino al villaggio e ripartì. 

Trovò un altro villaggio, vicino ad un altro bosco. Ebbe un altro bambino. Lo lasciò lì e proseguì il suo cammino. Per molti anni, la strega piantò i semi della sua vendetta, che crebbero e diventarono un flagello per gli uomini e il loro bestiame. Non che la cosa serví a fermare il genocidio delle streghe.

In tempi più recenti, i lupi mannari smisero di tormentare gli uomini e di vivere nelle foreste. Capirono che amalgamarsi a loro, nascondendo la propria natura, era un modo più efficace per sopravvivere. La strega non era più su quella terra da tempo e la vendetta aveva smesso di significare qualcosa. 

L'unico punto su cui Camillo concordava era quell'ultimo. Per il resto, potevano essere il frutto del grembo di una strega o di una mutazione genetica, del diavolo o degli alieni, a lui non interessava. Era un lupo mannaro, che gli piacesse o no. Quella era l'unica verità che contava.



COWT12

Feb. 17th, 2022 08:46 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Forza 
Titolo: 
La forza di una formica
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: Werewolves

Definire il Campo Mezzaluna un campeggio organizzato era dare del polito assennato a Caligola. Nonostante vi partecipassero tutte le famiglie di lupi mannari della regione, lo spazio a disposizione era ben poco e veniva brutalmente conteso fin dalle prime ore. Di tagliare un po’ di alberi lì intorno non se ne parlava, la foresta era sacra, e di cercare una nuova radura più estesa neanche. 

La famiglia di Camillo era arrivata con un giorno di anticipo per assicurarsi un buon posto. Le famiglie Amberly e Doyle addirittura due. 

Uno spiazzo abbastanza grande per montare la tenda dei genitori, la sua, quella dei suoi due fratellini, il tavolo da picnic e il barbeque. E lì finivano le loro comodità da “campeggio organizzato”. A quanto pare, il fatto che per liberare la vescica nella loro forma di lupo bastasse alzare la zampa vicino a un cespuglio voleva dire che potevano fare lo stesso anche da umani. 

Il primo giorno del Campo, tutte e ventuno le famiglie storiche arrivarono e si sistemarono prima di mezzogiorno. Nello stesso lasso di tempo, arrivò anche il caldo allucinante.

Camillo mollò i suoi parenti all’allestimento di Dio solo sapeva cosa e si addentrò nel dedalo di tende alla ricerca di Billy. Billy, il suo caro amico Billy, con la sua cara nonnina centenaria, così avanti con l’età che nessuno la guardava storto se si portava dietro e si faceva montare un gazebo per l’ombra. Il suo programma per la giornata era fare compagnia alla vecchina e magari evitare la prima di una lunga serie di sfide idiote.

E’ così che si occupava la maggior parte del tempo al Campo Mezzaluna: prove di forza, di agilità, di sopravvivenza. Gare in cui si cimentavano i giovani, ansiosi di pavoneggiarsi davanti al branco, e i meno giovani, fieri di dimostrare che la vecchia guardia ancora non era da buttare. Per Camillo, erano la sintesi di tutto ciò che di tossico c’era nelle loro tradizioni. E poi faceva schifo negli sport.

Non trovò la nonnina di Billy e la sua preziosa ombra, ma Billy trovò lui, placcandolo tra dietro.

<Eccoti, finalmente! Ti sono venuto a cercare.> Gli fece fare dietrofront e tornare sui suoi passi. <Allora, ho scoperto quale sarà la prima prova di domani e dobbiamo allenarci.>

<Non importa quale sarà, mi darò malato.>

<Noi non ci ammaliamo.> Billy gli diede un buffetto sulla testa. Lo faceva anche alla sua sorellina di cinque anni quando diceva una sciocchezza. Poi gli chiuse un braccio intorno alle spalle. 

<Braccio di ferro.>

Figuriamoci. Camillo era sicuro che avrebbero deciso per la cosa più stupida. Si sarebbe fatto eliminare al primo turno nel modo più indolore possibile.

<Devo insegnarti un paio di trucchetti che ho imparato da Chuck…>

<Billy, lascia perdere.> lo fermò subito. 

Erano tornati al suo spiazzo, stranamente disabitato. Billy si diresse a passo sicuro verso la sua tenda, aprendo la zip dell’entrata e facendogli cenni eloquenti. Là dentro facevano quaranta gradi come minimo, ma almeno c’era un po’ d’ombra. 

Billy non volle sentire ragioni. Insistè per fare delle prove, gli disse come posizionare il gomito in linea con la spalla e quanto piegarsi per la leva migliore.

<Sii come una formica.> Gli disse, nel suo miglior momento Obi-wan. <Le formiche sono piccole ma hanno una forza incredibile.>

Camillo era piccolo, ma non era una formica. Era un lupo mannaro non per scelta, venuto su un po’ deboluccio, che odiava la natura e l’istinto animale. E che si sarebbe fatto umiliare a braccio di ferro, non importava quanta forza il suo amico cercasse di trasmettergli per osmosi.


COWT12

Feb. 17th, 2022 11:28 am
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Entusiasmo 
Titolo: 
Una partenza obbligata
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: Werewolves

Il bagagliaio del Range Rover di suo padre, un suv di nome e un transatlantico di fatto, si chiuse con un tonfo che suonava come definitivo. Un portatile di ultima generazione che cade avrebbe fatto quel suono. Un vaso che ti finisce in testa dal terzo piano avrebbe fatto quel suono. Le porte dell’inferno che si chiudono dietro di te avrebbero fatto, inequivocabilmente e senza alcun dubbio, quel suono.

Camillo se ne stava ancora aggrappato alla ringhiera del portico, come se avesse potuto abbracciarla e legarvisi con le catene in segno di protesta.

Sua madre non aveva ancora deciso quanto cibo portarsi dietro e faceva avanti e indietro dal cortile alla cucina con le braccia piene di contenitori sottovuoto e un’espressione sconcertata.

I suoi fratellini rincorrevano insieme i figli dei Jackson fino alla strada e oltre, sul giardino della proprietà accanto, alla stregua di cuccioli esagitati portatori di morte e distruzione, quali erano. Camillo avrebbe dovuto tenerli d’occhio, per assicurarsi che almeno non finissero sotto una macchina, ma se succedeva una tale disgrazia in effetti avrebbero dovuto rimandare la partenza. 

Comparve Billy oltre la staccionata verniciata d’azzurro. Afferrò due bambini, li tenne sospesi in aria con quelle braccia da vigatore che si ritrovava e li fece roteare come su una giostra, finché le risa gioiose non rischiarono di assordare tutto il quartiere. 

<Buongiorno, Sandro!> Esclamò, mollando i mocciosi e non appena alla portata d’orecchie di suo padre. <Sono venuto a vedere se vi serviva una mano.>

<Buongiorno, ragazzo.> Fragorosa pacca sulla spalla. <Nah, qui siamo a posto, ma i Jackson devono ancora caricare le tende e la cucina da campo.>

Billy annuì più volte, valutando la situazione a distanza. Lui e suo padre erano alti uguali, cosa che non finiva mai di sconcertarlo. Da parte sua, Camillo sperava ancora in quei cinque centimetri rimasti indietro dalla pubertà. 

Prima di andare a fare il buon samaritano con i vicini, si avvicinò alla ringhiera del portico e rimase su un gradino più in basso. Fottuti cinque centimetri.

<Buongiorno.> Si chinò in avanti per strusciargli la fronte sulla spalla. Camillo non poté non ricambiare, sfiorandolo con la tempia sui capelli freschi. Bill si sarebbe messo a piangere, altrimenti.

Gemette appena, sofferente. <Puzzi già di campeggio.> Aveva il naso intasato di essenza di abete bianco, probabilmente un nuovo shampoo preso per l’occasione.

Billy rise, lo scosse per le braccia e riuscì a farlo staccare dalla sua isola felice. 

<Ti piacerà quest’anno, te l’ho promesso.>

<Me lo hanno promesso anche i miei, tanto per la cronaca, ma sono proprio le premesse ad essere sbagliate.> Camillo agitò la mano verso la casa alle sue spalle. Sentì la disperazione tornare a rendergli stridula la voce. <Nessun tetto sopra la testa. Niente bagni decenti, niente elettrodomestici, niente wi-fi. Solo alberi, insetti e fango. Mangeremo cibo precotto o crudo, ci puliremo il culo con una foglia e prima di una settimana avremo tutti le pulci.>

<I lupi mannari sono vissuti così per secoli.> Billy lo disse come se non fosse già solo quella una tragedia in sé. <Non abbiamo bisogno di queste cose, possiamo farne a meno per un mese.>

<Il fatto che possa, non vuol dire che voglia!>

Eppure, l’unico a non capire sembrava Camillo. Suo padre caricava bagagli da quella mattina con un sorriso soddisfatto; anche sua madre, sotto il primo strato di apprensione, lasciava trasparire entusiasmo. Dei bambini, non ne parliamo. Billy toccava il cielo con un dito. Tutti non vedevano l’ora di fare quel viaggio, tranne lui. 

Tornò ad aggrapparsi alla ringhiera.


COWT12

Feb. 17th, 2022 10:11 am
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Speranza 
Titolo: 
Briciole
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: Soulmate!AU --> Ciò che scrivi/disegni sulla tua pelle compare istantaneamente anche sulla pelle della tua anima gemella

<Chi ti ha dato il suo numero?> Max lo guardava con un sorriso marpione sulla faccia. Puntó con lo sguardo sul palmo della sua mano, dove nove cifre apparentemente scritte sbrigativamente con inchiostro blu spiccavano sulla pelle pallida, poi mosse le sopracciglia con allusione.

Connor sospirò. <Non è per me.>

Max non capì subito. La confusione vagò nei suoi occhi per qualche secondo, finché due neuroni là dietro non si scontrarono e lo sguardo gli si accese di comprensione. 

<È la tua metà smemorata?>

Precisamente. E non era neanche la prima volta che accadeva quel giorno.

Max si inalberò d'un tratto oltraggiato. <Qualcuno ha dato il numero alla tua metà smemorata? E perché lui l'ha accettato?>

<Ma perché pensi sempre male tu? Chi ti dice che sia una conquista?> Spero proprio di no. <Magari è solo il numero dell'idraulico, e non aveva un foglio dove appuntarselo.>

L'alternativa era che la sua anima gemella fosse uno schianto rubacuori che attirava l'attenzione come api al miele, e non era pronto a scendere a patti con questa realtà.

<L'idraulico.> Ripeté Max, con l'espressione e il tono che lui avrebbe usato per dire "La pornostar". 

Lo lasciò alle sue ridicole convinzioni, concentrandosi invece sui numeri apparsi sulla sua pelle. Come faceva spesso, portò le dita dell’altra mano ad accarezzarsi lì dove altre dita, altre mani erano passate. Poteva illudersi di toccarlo, poteva illudersi che lui, dall’altro capo di quella paradossale vicinanza, sentisse il tocco del suo affetto. 

Quelle cifre non gli dicevano niente. Non erano indirizzi, né promemoria. 

Aveva scoperto sulla propria pelle che la sua anima gemella andava all’università. A sociologia gli davano da fare molti lavori di gruppo e doveva appuntarsi consegne e compagni. Qualche volta passava a prendere un libro in biblioteca per un amico, ma non aveva ancora capito se la frequentava lui stesso. 

Si dimenticava spesso di fare la spesa. Il latte, in particolare, veniva scritto molte volte, lettere storte e per lo più sbavate. La cura che metteva per scrivere “fragole”, invece, era adorabile. Fragole, si era appuntato mentalmente anche Connor.

Aveva scoperto la sua città da un indirizzo di una lavanderia a gettoni, quello di una sala da biliardo a orario continuato e il prezzo della benzina più economico della zona. Sperava di averci preso, o presto si sarebbe fatto un bel viaggio a vuoto.

La tentazione di cercare anche quel nuovo numero, magari per aggiungere un pezzo al puzzle di informazioni che aveva raccolto lo colse per un momento. Decise di no, alla fine. 

A volte si sentiva un po’ uno stalker, a volte solo innamorato.

Max lo punzecchiò con una penna tirata fuori chissà dove. <Rispondigli. Chiedigli chi è questo idraulico.>

Riuscì perfino a dirlo con serietà.

Connor gli strappò la penna di mano, seccato. Tolse il tappo. Posizionò la mano così che l’amico non potesse sbirciare nel palmo. 

La sua attenzione tornò a quei nove numeri, alla persona che li aveva scritti. Se la immaginava indaffarata, sempre di fretta, che cadeva dalle nuvole e metteva il turbo per stare al passo con la vita. Forse avrebbe letto la sua risposta subito, forse non se ne sarebbe accorto fino a sera. Non aveva importanza.

“Sei nei miei pensieri”, scrisse e valeva per tutta la giornata. “Spero di incontrarti presto”


cowt12

Feb. 16th, 2022 07:47 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Creatività 
Titolo:
Amore a pelle
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: Soulmate!AU --> Ciò che scrivi/disegni sulla tua pelle compare istantaneamente anche sulla pelle della tua anima gemella

Anna gli fissava le braccia scoperte da un quarto d'ora buono ormai. Ad ogni cliente del Mc Donald's che passava al fianco del loro tavolo, con il proprio vassoio in mano, cadeva l'occhio nello stesso punto. Felix non li biasimava. Anche lui si sarebbe ammirato per ore e lo faceva, in effetti, di sera appena tornato a casa, davanti allo specchio del bagno e semplicemente steso a letto, si accarezzava la pelle con tocco delicato e sorrideva al vuoto.

Un piccolo brivido gli fece formicolare le dita. La patatina che si stava portando alla bocca gli cadde di mano, ma non ci fece caso. Tutt'a un tratto emozionato, allungò il polso verso Anna, così che potesse vedere meglio. 

Lì dove spuntava la collina ossea del polso, accanto ad un minuscolo neo tondeggiante, comparve un svolazzo nero, poco più di una virgola abbozzata. Comparve dal nulla, senza che Felix facesse alcunché, come se fosse risalito da sotto la pelle. La virgola si allungò in un cerchio non del tutto chiuso, poi comparve un altro cerchio concentrico e un altro ancora, e rivoli d'inchiostro lungo tutto il dorso della mano, a intrecciarsi con le vene e disegnare nuovi tendini. Nel giro di tre minuti, sulla sua mano c'era uno stagno le cui acque erano state disturbate da una foglia caduta, un gioco di cerchi e ombre così realistico che Felix sentì l'impulso di afferrare un tovagliolo per asciugare la pelle.

<Porca miseria.> Anna era comprensibilmente colpita e osservava rapita il disegno. Aveva avvicinato le dita, ma poi le aveva fermate a pochi centimetri di distanza, non azzardandosi a toccarlo.

Felix la incoraggiò con un colpetto. <È bravo, vero?> Chiese, orgoglioso. Più che orgoglioso, fiero che se ad aver tracciato quelle linee fosse stato lui stesso.

<Sicuro.> Annuí lei, ricalcando con la punta dell'indice un'onda. <Dunque… un artista?>

<Proprio così.>

<Che diavolo ci trova un artista in te?>

<Ehi!>

Anna schivò la patatina che le voló contro e alzò le mani. <Dico solo che non ti vedo un pennello in mano dalle scuole elementari. È un destino curioso.>

Non poteva dissentire e in un certo senso Felix si sentiva in difetto, ma solo per non poter ricambiare. La sua anima gemella, chiunque egli fosse, gli regalava ogni sera meraviglie su pelle, passaggi mozzafiato ed esplosioni di fiori. E sapeva, sentiva nel suo intimo che quei bellissimi disegni erano per lui, solo per lui. Avrebbe ricambiato volentieri, se solo fosse stato capace di tracciare due linee dritte.

<Lo porterò a vedere tutte le gallerie d'arte che vorrà.> Mormorò fra sé, come ogni volta che provava ad immaginare quel futuro sfocato ma luminoso. <Anzi, allestirò una galleria d'arte solo per lui, così potrà esporci le sue opere.> 

<Ahhh, se ti sentisse la maestra Sandrina.> Lo prese in giro Anna. Felix si riprese la propria mano con una linguaccia.

<Hai già iniziato a cercarlo?>

<Non ancora. Abbiamo deciso di aspettare l'estate, senza la scuola di mezzo potremo spostarci più liberamente.> 

Non vedeva l'ora. Aveva già iniziato a risparmiare. Intanto, era felice di godersi il suo corpo diventare un'opera d'arte.


COWT12

Feb. 16th, 2022 07:44 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Successo
Titolo: 
Il segreto del successo
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: /

Il campanello trilla e la porta sbatte sul retro della vetrina, un boato che fa saltare sull’attenti ogni cliente del negozio. La figura imponente di un uomo che non si è risparmiato con gli sport da bambino si accartoccia su se stessa, sotto il peso dell’imbarazzo. Il nuovo venuto accompagna il pomello alla serratura con rinnovata gentilezza e marcia dritto verso il bancone a testa bassa.

Bea è lì ad aspettarlo.

Per tutto il tempo che impiega a finire di servire la signora che lo precede, incassando i soldi e impacchettando le erbe con la memoria dei gesti usuali, non lo perde un attimo di vista. E’ sicura che si tratti di quel tipo di cliente. Adora quel tipo di cliente. 

L’uomo tortura a intervalli regolari le labbra screpolate e l’orlo della giacca grigio antracite con dita nervose. Fa saettare gli occhi da uno scaffale all’altro, senza fermarsi su niente in particolare, e li distoglie subito appena incontrano quelli di qualche altro inventore. O quelli di Bea. Non si azzarda proprio a ricambiare il suo sguardo. Si vergogna. E’ forse timido? O solo altezzoso ma al contempo disperato? Le piace pensare che sia timido. Un timido omaccione in completo elegante alla ricerca di qualcosa di davvero speciale.

Saluta la gentile signora che ha appena acquistato metà della sua scorta di lavanda e si apre nel più entusiasta dei suoi sorrisi.

L’uomo è davvero alto, Bea deve alzare il mento per arrivare a guardargli il viso. E ancora non è ricambiata.

<Buongiorno e benvenuto!> Trilla anche lei, cristallina come il campanello, e forse un po’ troppo forte. <Come posso aiutarla?>

Il timidone la guarda per un breve, impegnativo secondo. Una vittoria.

<Buongiorno, sì.> Borbotta un po’, si guarda intorno. Borbotta ancora. <Sto cercando una pozione che possa aiutarmi.>

<Allora è nel posto giusto! Abbiamo una vasta scelta e sono sicura che riusciremo a soddisfarla.> Bea sorride un po’ di più. Può tirare ad indovinare: a quel tizio serve coraggio liquido, o una bella botta di autostima. Una seduta di terapia, in alternativa, ma i rimedi che offre lei sono più economici.

<Vede…> Comincia lui e lo sguardo gli si ferma su qualcosa alle sue spalle; la manciata di asfodeli essiccati, forse, o la treccia di spighe di grano e farfalle impagliate. <Vorrei avere successo nel mio lavoro. Sono un rappresentante farmaceutico.> Le mostra il proprio biglietto da visita recuperato dal taschino della giacca.

Bea non si sforza di nascondere la propria sorpresa. Un rappresentante farmaceutico, quello lì? Non ci avrebbe scommesso mezzo soldo. 

<...E so fare il mio lavoro, insomma credo di essere abbastanza bravo, ma c'è questo collega… I suoi rapporti sono migliori dei miei e fra poco ci saranno le consegne dei premi aziendali…>

Il rappresentante farmaceutico timido-ma-non-troppo snocciola giustificazione come se si trovasse davanti al suo capo e Bea comincia a capire perché gli serva una pozione.

Interrompe la sua tiritera con un secco <Ho quello che fa per lei.> E lo lascia lì al bancone, rifugiandosi nel retrobottega. Se è successo che vuole, successo gli darà. E magari gli chiederà anche il numero.


COWT12

Feb. 14th, 2022 11:17 am
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Fede
Titolo:
La più spettacolare delle favole
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: /

Dagli appunti sulla dottrina dell’Ascesa del Visconte Antonio Ilizio Secondo - Biblioteca privata della Reggenza in Esilio

[…] Più viaggio in questi miei anni di vecchiaia, più paesi e popoli e culture imparo a conoscere, più mi convinco che tra le grandi opere che l’uomo è ed è stato in grado di immaginare, la più impressionante è la religione. O le religioni, a dir si voglia, ce ne sono così tante a questo mondo. 

La cosa che più mi affascina, però, è il grado di complessità e inventiva raggiunto. Una tale ragnatela di bugie e illusioni, dolci come il miele, da attirare ogni esule che abbia orecchie per ascoltare il suo canto. 

Non esistono prove empiriche o tangibili che anche una sola delle centinaia di dottrine che riempiono le bocche dei monaci di città e campagne sia reale. La fede è il pilastro di ogni tempio, ma cos’è la fede se non la volontà di credere in una favola? C’è davvero differenza tra i racconti sussurrati ai bambini per farli dormire sonni tranquilli e i dogmi che i Santi inseguono apparentemente per lo stesso motivo?

Ciò che un credente è disposto a fare per la sua fede è spaventoso. 

Sono stato un soldato, in un battaglione tra i più onorevoli, al servizio di un comandante il cui carisma invidio tutt’ora. Per quell’uomo ho combattuto, ho sofferto e sarei morto. Ho dato i miei anni migliori alla sua causa. Per quell’uomo ho strappato vite come erbacce da un giardino, in nome della pace e del progresso del regno. Ma un credente, in nome di cosa farebbe tutto ciò? Dove sono le sue assicurazioni? Chi dice che sia giusto?

Ho un nipote che presto intraprenderà la strada per diventare un Santo dell’Ascesa. Mi sono sforzato di capire le sue motivazioni religiose, o intime, ma ci sono favole migliori a cui credere e per cui buttare la propria vita. 

L’addestramento per diventare Santi dura ventuno anni. Ventuno lunghissimi anni. E le sue prove cominciano ancor prima di varcare le porte del Santuario.

Gli aspiranti novizi vengono condotti ad un banchetto sontuoso. Li fanno mangiare come maiali, li ingozzano di ogni prelibatezza immaginabile. Poi dicono loro: “Questa sarà l’ultima volta”.

La seconda tappa sono le case del piacere. Ogni aspirante giace con una bellissima donna, un uomo, un uomo e una donna, un plotone di vergini, qualsiasi cosa preferisca. Poi dicono loro: “Questa sarà l’ultima volta”.

All’alba, vengono portati di fronte ai portoni del Santuario.

“Ora sapete a cosa rinunciate”.

Solo pochi decidono di oltrepassare la soglia.

Ventuno anni di addestramento. Di umiliazioni e di duro lavoro, di faticosi studi e di penitenza. In nome di una fede intangibile. 

No, preferisco immaginare che ci siano altre ragioni, più forti, che non ti facciano rinunciare a metà strada. I privilegi, il potere. Un premio terreno prima di quello spirituale.

Mi chiedo se quel mio nipote riuscirà nella sua lenta salita. Mi chiedo a cosa si aggrapperà nelle notti disperate, quando chiamerà il nome degli dei e nessuno risponderà. 

Chi diventa davvero un Santo? I veri devoti e i veri ambiziosi.



COWT12

Feb. 13th, 2022 09:33 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Pace
Titolo:
 Una questione di premesse
Fandom: Originale
Rating: T
Warning: Linguaggio appena colorito 
Note: /

“L’animo preferisce la vittoria alla pace.” - Tito Livio

<Tu! Grandissimo schifoso figlio di una cagna!>

Ailo mise giù il libro. Come lui, anche il resto dei presenti si trovò strappato dalla consultazione dei tomi da quella squillante voce adirata.

Il capitano Flynn Manente, fresco di nomina e di nepotismo, marciava attraverso la biblioteca con passo pesante e sguardo posseduto. C’era chi pensava che fosse troppo giovane per rivestire quella carica, troppo preso dalle pulsioni del momento. Ailo avrebbe voluto che quelle persone fossero lì a godersi la scena.

<Capitano…> Non fece in tempo a finire il saluto. O ad alzarsi dalla poltrona. Flynn scaraventò via il suo libro con un manrovescio, probabilmente immaginando fosse la sua guancia. Più di una voce agitata gli arrivò alle orecchie.

<Tu!> Ripeté il capitano, a pieni polmoni. <Tu!> La sua faccia era più rossa delle labbra della regina, talmente tirata da poterci accordare un’arpa. 

<Io.> Commentò seraficamente Ailo, togliendosi con la punta dell’indice uno spruzzo di saliva sfuggito alla sua foga. Fece per pulirsi il dito sulla giacca dell’ufficiale, ma poi cambiò idea: se lo portò alla bocca, leccandolo via con un guizzo. Fu come gettare pece sul fuoco.

Gli occhi di Flynn si assottigliarono. Caricò una mano inanellata indietro e Ailo fu certo di star per ricevere un pugno. A salvarlo arrivarono due coppie di braccia sconosciute, che tirarono via il suo aggressore. Una donna gridava, Flynn gridava, a un certo punto gridarono tutti e richiamarono l’attenzione di un gruppo di guardie. Il capitano non smise di urlare nemmeno quando queste ultime, un poco imbarazzate e un poco impaurite, lo trascinarono via sotto lo sguardo indignato e risentito di più di uno studioso.

<Oh, Ailo.> Qualcuno sospirò dietro di lui. 

Voltandosi, trovò la sua amica Jenna a scuotere la testa e far dondolare i suoi pendenti tempestati di diamanti. <Non capisco perché ti ostini a fartelo nemico. Che cosa ti ha mai fatto?>

Niente. Niente di personale. Ailo sapeva di risultare infantile, in un certo senso. L’unico motivo per cui non gli andava a genio era a causa dei privilegi del suo nome. Tutto quello che lui si era conquistato a fatica, Flynn Manente lo aveva ottenuto grazie a un padre influente e nient’altro. 

Per questo aveva iniziato a stuzzicarlo. A mettere in dubbio i suoi successi e a girare il coltello nella piaga quando falliva. A lanciargli qualche tiro mancino. A svergognarlo con le signore. 

Che poi lui se la prendesse tanto per qualche pettegolezzo innocente, un’indiscrezione di natura idraulica qua e là, era tutta farina del suo sacco.

<Lascia perdere, Jenna. Siamo semplicemente incompatibili.>

Lei le porse il suo libro, che doveva aver raccolto prima. Ailo la ringraziò con un sorriso e un complimento alla sua nuova acconciatura, alla moda orientale. L’espressione della sua compagna di corsi, però, lasciava intendere tutto tranne che l’argomento fosse accantonato.

<Potresti guadagnare molto dalla sua amicizia. Con lui dalla tua parte, avresti accesso incondizionato al rettorato, forse persino alla Congrega dei Mille. Sai che suo padre tiene metà dei Signori del Commercio di Linat sul suo libro paga?>

Oh, eccome se lo sapeva. Flynn non mancava mai di citarlo, all’occorrenza. 

<Saresti già un Primo Ordine.>

<Sarò un Primo Ordine in ogni caso, un giorno. E quando quel giorno arriverà, voglio vedere Flynn Manente rodersi il fegato in ginocchio davanti a me, piuttosto che tronfio alle mie spalle. >


COWT12

Feb. 13th, 2022 07:33 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Consapevolezza
Titolo:
 Caregiver
Fandom: Originale
Rating: M
Warning: / 
Note: Omegaverse

Michael era un convinto sostenitore della teoria “La conoscenza è l’arma migliore”. Non comprendeva affatto chi decideva spontaneamente di rimanere nell’ignoranza: non sapere era terrificante.  

Quando a scuola avevano accennato per la prima volta a alpha, beta e omega, lui non ci aveva capito niente. La maestra Viola aveva letto due righe da un opuscolo e li aveva terrorizzati con ripercussioni immani se si fossero dimenticati di far firmare l’avviso ai genitori per il test del mese successivo. Era tornato a casa con la preoccupazione che cresceva ad ogni passo, temendo una malattia, o forse una maledizione degli avi, chissà che non avrebbero dovuto esiliarlo in un’isola deserta perché aveva il gene della sfiga di Madre Natura. 

Così aveva subito chiesto alla mamma, alla nonna, alla lunga lista di parenti esperti che aveva a portata di mano - la fortuna di avere un intero ramo famigliare nel settore medico - e il giorno del test, mentre i suoi compagni di classe avevano solo vagamente idea di cosa dovessero fare e si stritolavano le dita in preda all’agitazione, lui sapeva con esattezza cosa lo aspettava, quali pieghe la sua vita avrebbe potuto prendere, pregi e difetti di ognuna di esse. Ed era il più tranquillo.

Sei anni dopo, con l’avvento del suo calore, le cose non erano cambiate. Si era informato su tutto con settimane d’anticipo, raccogliendo più dati possibili e scartando attentamente quelli pochi attendibili. Ovvero la maggior parte. Santa Madre, quante balle giravano su quell’argomento! Gli omega impazzivano, o venivano presi da dolori lancinanti, o aggredivano le persone per strada per farsi scopare! 

Qualche giorno prima Mark Montreal, che probabilmente sapeva tanto degli omega quanto di igiene personale, si era detto invidioso di lui perché sarebbe diventato tanto sensibile da avere un orgasmo solo con il pensiero. Invece Amber Mc-qualcosa, quella di arti figurative, gli aveva confidato di essere molto preoccupata per la febbre e di aver fatto incetta di paracetamolo per un mese. Un mese. Michael aveva avuto pietà di lei, ma non era comunque riuscito a farle capire che no, non avrebbe avuto la febbre e, a prescindere, il calore non sarebbe durato più di quarantotto ore. 

Non era preoccupato, non ne aveva motivo. Era solo la natura che faceva il suo corso. L’unica cosa che gli dava da pensare era se accettare o no l’offerta di sua madre di un’assistenza “esterna”. 

Un’ottima agenzia specializzata in questi servizi per gli omega, a cui spesso anche il suo ospedale si rivolgeva per un aiuto ai casi di traumi e violenze, dove era necessaria una certa delicatezza e una bella dose di professionalità. Così l’aveva definita sua madre e lui si fidava, certo, la mamma non lo avrebbe mai messo in mani men che fidate. Però, era pur sempre il suo primo calore. 

Una piccola parte di lui, e non tra le più carismatiche, lo considerava una cosa personale, intima. Un rituale di passaggio. La perdita dell’innocenza. Nessuno l’avrebbe più considerato un bambino. 

Tirò fuori il biglietto da visita che gli aveva dato sua madre. Il nome dell’agenzia era stampato in un anonimo carattere da studio legale, così come anonimo era lo sfondo nebuloso della carta. L’unica concessione al frivolo erano due linee sottili sugli angoli e il più piccolo degli svolazzi. 

Ecco il suo regalo a sé stesso per il suo primo calore: non dover organizzare niente, che tanto ci avrebbe pensato l’agenzia. Con buona pace dell’intimità.

§

Il calore arrivò con tre giorni di ritardo. L’agenzia fu molto paziente, ovviamente, gli aveva concesso una finestra di ben due settimane. La stizza era tutta sua. In quei tre giorni non aveva fatto altro che pensare a quello, attendendo con l'impazienza di un wedding planner che si ammazza di lavoro per far partire la cerimonia in orario e poi ad arrivare in ritardo sono gli sposi. 

La mattina fatidica la sua famiglia se ne era accorta quasi prima di lui. 

Ok, appena aperti gli occhi si era fatto una sega, ma quella era la normalità. L’alzabandiera mattutino non mancava quasi mai e di domenica, quando non doveva correre a scuola, poteva darsi piacere invece che farsela passare a furia di immaginari uccellini ingoiati da gatti, sbranati da cani, presi sotto da una macchina.

Era sceso in cucina per la colazione e tornato in camera per vestirsi. Sotto la doccia si era masturbato di nuovo e lì, il primo dubbio lo aveva colpito. Ma aveva ancora in mente il sogno fatto quella notte, ed era un sogno da oscar del porno, quindi ancora non era il caso di attivare l’allarme. 

Sceso di nuovo al pianterreno per piazzarsi davanti la tv in salotto, aveva declinato ogni proposta di attività all’infuori del divano fino all’ora di pranzo. Stava comodo. Non aveva voglia di alzarsi. Poi si era eccitato guardando la pubblicità dei fazzoletti kleenex, immaginando che utilizzo avrebbe potuto farne. Si era eccitato strusciando il bacino sulla trama del divano, chinandosi oltre il bracciolo per recuperare il pastello di sua sorella. Sua madre gli aveva chiesto se voleva una ciambella per merenda e lui si era eccitato.

«Tesoro…»

Aveva chiamato l’agenzia.

Un’utilitaria era entrata nel loro vialetto meno di venti minuti dopo, fermandosi davanti alla saracinesca del garage. Michael era grato della loro velocità: con la valigia preparata in precedenza, aveva passato quell’attesa in piedi all’ingresso, agitandosi sulle proprie gambe, a fissare la parete intonacata con ostinazione, dato che aveva cominciato a vedere oggetti fallici in ogni figura su cui posasse lo sguardo.

Il trillo del cellulare gli notificò l’arrivo di un nuovo messaggio. 

«Allora io vado, mamma.»

Sua madre aggiunse un paio di raccomandazioni di rito, sua sorella gli chiese di portarle un souvenir. Nella sua adorabile testolina di bambina di cinque anni, valigia equivaleva a vacanza. Michael non se l’era sentita di spiegarle cosa andava realmente a fare. Non per altri cinque anni almeno.

Salutò un’ultima volta e si chiuse il portone alle spalle. Vedendolo avvicinarsi all’auto, il guidatore scese per prendergli la valigia e metterla nel portabagagli. Alto, brizzolato, indossava una cravatta ma la teneva allentata sul collo. Si faceva presto ad aprire una camicia già slacciata per metà.

Michael per poco non diede una testata sullo sportello dell’auto. Di proposito. Non era il caso di pensare certe cose, doveva solo controllarsi fino all’arrivo. Peccato che i suoi pensieri scivolassero come anguille. Fuggivano dalla sua presa un attimo prima che potesse stringerli. 

Lo scricchiolio della pelle dei sedili, quando si sedette, suonò come una promessa sconcia. La consistenza del cuoio sotto i polpastrelli gli faceva stringere le dita. All’interno dell’abitacolo aleggiava un odore fresco di agrumi. Sapeva che normalmente gli avrebbe ricordato l’estate, il sole, il nonno che spreme le arance a mano e fissa lo spremiagrumi automatico con aperto disprezzo, l’anticristo del sesso insomma. Ora l’unica immagine che quel profumo evocava erano limoni, tanti limoni, limoni ovunque, con chiunque, essere sbattuto sotto un albero di limoni…

«Fra quanto arriveremo?» 

Poteva vedere il viso dell’autista attraverso lo specchietto retrovisore e pregò che rispondesse “presto”. Quello ricambiò lo sguardo, sorrise appena e riuscì a farlo sembrare più comprensivo che compassionevole. Rispose: «Presto. Dieci minuti, se non troveremo traffico.»

Meraviglioso. Non parlò più con l’autista, sforzandosi di escluderlo da ogni pensiero, e l’autista non parlò più con lui. Sapeva. Sapeva che sapeva. Entrambi sapevano. Il lavoro di quell’uomo era portare omega in calore dove avrebbero trovato sollievo e ignorare il fatto che in quei dieci minuti lui era l’unico soggetto su cui fantasticare.

Micheal fu genuinamente impressionato, per un istante. Il suo stoicismo era ammirevole. Magari era più facile quando l’omega in questione poteva essere tuo figlio.

§

«Signor Berry, da questa parte.»

Era la prima volta che lo chiamavano signore. Michael, sedici anni, tappo e mingherlino, era fortunato se non lo credevano uno studente delle scuole medie. Fu gratificante. Poi l’assistente si girò, offrendogli la vista del suo sedere fasciato in una gonna attillata, e tutto andò in malora. 

Sospirò frustrato. Onestamente era già stanco di quel chiodo fisso. Sapeva che sarebbe stato come rivivere l’inizio della pubertà con la quantità di ormoni decuplicata, ma saperlo e sperimentarlo sulla propria pelle erano proprio due cose diverse. Era frustrato per non essersi ancora sfogato. Ed era frustrato per essere frustrato per non essersi ancora sfogato. Si sentiva come un violino troppo tirato e presto una delle corde si sarebbe spezzata.

Registrò appena il corridoio in cui stavano passando. Stava sperimentando una nuova tecnica: non soffermare lo sguardo su ciò che osservava, ma cambiare soggetto prima che la sua mente in iperventilazione ci vedesse qualche perversione. Così seppe che avevano preso l’ascensore per salire al secondo piano e attraversato un altro paio di corridoi, ma potevano anche trovarsi al palazzo ducale per quanto aveva fatto attenzione.

Una macchia fuori posto sulle altrimenti monotone pareti e porte laccate lo costrinsero a focalizzarsi su di essa. Ci fu poco da fare a quel punto: un bellissimo uomo gli veniva incontro e una misera occhiata era più che sufficiente per desiderare che si inginocchiasse ai suoi piedi.

«Oh, Clary.» L’uomo spostò lo sguardo dalla donna a Michael. «Il signor Berry?»

Non si capiva di che colore avesse gli occhi dietro le lenti colorate dalla montatura fine. Gli piaceva che portasse gli occhiali, insieme ai capelli sbarazzini gli davano un’aria da professore dissoluto.

Era la persona che si sarebbe presa cura di lui? Sì, per favore. Che fosse lui. Per favore.

Sì schiarì appena la gola. «Sì, sono io.»

Il professore distese le labbra in un sorriso. Michael non vedeva l’ora di sentire la rada barbetta solleticarlo mentre quelle lo lambivano. «Piacere, io sono Vincent. Sarò il suo caregiver per le prossime giornate.»

Il suo pene esultò. Quasi si mise a fare le fusa, l’infoiato. 

Michael ricambiò il sorriso e portò con disinvoltura la valigia a coprirlo sul davanti. 

Vincent la adocchiò e protese appena una mano. «Mi permette?» Fu ben attento a non sfiorargli le dita quando prese il manico del bagaglio, una piccola accortezza di cui Michael gli fu grato. Madre Natura sola sapeva cosa avrebbe scatenato in lui. 

L’assistente Clary gli augurò un piacevole soggiorno e si congedò. Vincent lo invitò ad entrare nella camera 224.

Più che una camera, sarebbe corretto dire appartamento. Nonostante la stanza principale fosse quella da notte, con il letto a due piazze che torreggiava prepotentemente sul resto dei mobili, Michael notò la presenza di un angolo cucina, un piccolo terrazzo e, dietro una porta di vetro smerigliato, un bagno. 

I colori erano quelli della quotidianità e quotidianità significava tinte pastello, vasi di bulbi fioriti o piccole piante grasse sulle superfici appena polverose e un paio di lava lamp per cui aveva un debole. E siccome le apprezzava, smise di guardarle non appena le bolle al loro interno assunsero forme falliche.

«Signor Berry,» Vincent aveva appoggiato la sua valigia ai piedi del letto. «Posso darle del tu? O preferisce continuare su questo tono?»

Onestamente, sentire un uomo sulla trentina chiamarlo signore e dargli del tu era strano, anche senza il presupposto che da lì a poco quell’uomo lo avrebbe visto nudo, magari toccato, magari scopato.

«Del tu, per carità. E spero non ti offendi se faccio altrettanto.»

Vincent approvò sorridendo e si spinse gli occhiali sul ponte del naso con un dito. 

«Ci mancherebbe. Dunque, Michael.» Il suo nome sulla sua bocca gli provocò un brivido giù per la schiena. Lo mascherò magistralmente, o così gli piacque pensare. La pelle d’oca, poi, non si vedeva da quella distanza. 

«Prima di cominciare, vorrei ripetere le regole di questo incontro, considerando che è la prima volta che hai a che fare sia con noi, sia con il calore.»

Annuì. Sapeva già tutto, aveva definito ogni dettaglio con l’agenzia giorni prima, ma apprezzò comunque l’iniziativa. La consapevolezza era l’arma migliore. 

Il suo uccello gli mandò una stilettata per protesta, non molto a favore di quel temporeggiamento, ma lo ignorò.

«All’interno di questo alloggio e finché non metterai a rischio te stesso o me, puoi fare tutto ciò che vuoi e tutto ciò che ti dà sollievo. Puoi chiedermi ciò che vuoi; se mi è permesso farlo, lo farò. Sarà mio compito occuparmi dei tuoi bisogni, sia quelli legati al calore che non. Se qualcosa non ti piace o ti crea disagio, riferiscimelo e me ne occuperò subito.» Vincent fece una pausa per riprendere fiato. Si allungò per buttare un occhio su dei fogli appoggiati sul tavolo, di cui Michael si accorse per la prima volta. «Qui leggo che non hai allergie o intolleranze, né problemi fisici o di salute a cui fare attenzione.»

Vincent lo puntò con lo sguardo. Si aspettava una conferma. Annuì.

«Hai già avuto esperienze sessuali con altri partner.»

Occhi in cerca di conferma. Annuì due volte.

«Non hai specificato nessun kink in particolare ma sei favorevole alla sperimentazione e hai dato il consenso alla penetrazione.»

Annuì così concitatamente da mordersi la lingua. Una smorfia gli accartocciò il viso e seppe anche di essere arrossito. Non poteva farci niente, il ventre gli tirava tanto da farlo quasi piegare in due, e solo una piccola parte di quel grumo emotivo era imbarazzo. 

«Vuoi aggiungere qualcos’altro? Hai qualche richiesta da farmi?»

“Scopami.” Per poco non gli uscì di bocca davvero. Lo sentì sulla punta della lingua e se la morse di nuovo. Un risolino isterico gli sfuggì tra i denti. Si portò le mani a coprirsi il viso, fino ad artigliarsi i capelli; tra le dita vedeva Victor emanare comprensione e sex-appeal a ondate alterne. Comprensione e sex-appeal. Che combinazione distruttiva. 

«Scusami. Scusami, è solo…» Chiuse le fessure tra le dita per non doverlo più guardare.

«… è solo che io sto qui a parlare, mentre tu sei alle prese con il calore.» Vincent si staccò dal tavolo e abbandonò la zona cucina. «Va bene, non preoccuparti, è normale. Che ne dici se ti facciamo scaricare subito un paio di volte, così avrai un po’ di tregua?»

Gli venne talmente vicino da poter sentire il suo odore. Ammorbidente per capi delicati, shampoo alla mandorla, un’ombra di fumo di sigaretta, nessun profumo o dopobarba. Avrebbe potuto sciogliersi addosso a lui. Fece di meglio: si alzò sulle punte e lo baciò con le mani a circondargli la mandibola. 

Voleva fare e fargli e farsi fare talmente tante cose da non sapere da dove cominciare. Vincent li fece girare e indietreggiò fino al letto. Michael si ritrovò a seguirlo senza averne memoria, improvvisamente steso sopra di lui su una trapunta spugnosa, a strusciarsi sulla sua gamba. Come… un animale.

Si tirò su a sedere di scatto. Impose alle sue mani di stringersi sulle cosce, le sue cosce, non quelle di Vincent. Che vergogna. 

Prese un respiro profondo. Un altro. Vincent lo guardava perplesso ma senza osare muoversi. Prendere il terzo respiro senza aspirarlo direttamente dalla sua bocca fu estremamente difficile, ma si sentì fiero di sé stesso quando ci riuscì. Si slacciò i pantaloni e se li tolse, un po’ a fatica. Gli piacque lo sguardo ammirato di Vincent quando li piegò con cura, invece di gettarli semplicemente per terra. Si spogliò completamente. 

«Vorrei…abbracciarti e… muovermi.» Bene così, non doveva sentirsi in imbarazzo. Lo pagava fior fior di quattrini ma non per questo non si sarebbe interessato al suo volere. «Su di te.»

Vincent sorrise e aprì braccia e gambe. «Vieni qui.»

§

Le voci che giravano sul calore erano terrificanti ed esagerate, sì, ma magari c’era un fondo di verità. Michael non fu in grado di venire con il solo pensiero, ma venne molte volte, ripetutamente, in svariati modi. E a un certo punto, una volta entrati in confidenza tanto da giocare, Vincent lo tenne in sospeso per venti minuti e bastarono un paio di carezze ben assessate per finirlo. 

Non perse la memoria né si risvegliò quarantotto ore dopo senza ricordare cosa avevano fatto Solo che lo avevano fatto talmente tante volte che i ricordi si confondevano tra di loro, si scambiavano di posto e alla fine non avrebbe saputo dire se l’ordine era giusto. Non che avesse importanza, in fin dei conti.

La febbre? Nient’affatto, anzi: si sarebbe preso un raffreddore per lo stare troppo nudo, se Vincent non si fosse preoccupato metodicamente di coprirlo a ogni intervallo.

Solo su una cosa si trovò impreparato. Qualcosa di cui non aveva letto ne sentito da nessuna parte, che non aveva potuto immaginare o prepararsi. 

«Non mi sento diverso.» Aveva commentato, raggomitolato su un fianco, mentre gli ultimi strascichi del calore si ritiravano e sapeva che era finita. Era esausto, assonnato, magari un po’ intontito dalle endorfine, ma per il resto era uguale alla settimana precedente. Non si sentiva un adulto.

Vincent, più stanco di lui ma che ancora resisteva al sonno, gli aveva indirizzato una muta domanda con lo sguardo, accasciato accanto a lui.

«Non lo so. Pensavo che mi sarei sentito… Non lo so.»

«Va bene. Non devi sapere tutto, o capire tutto, la prima volta.»

Poteva accettarlo. 


COWT12

Feb. 13th, 2022 06:30 pm
Settimana: 1
Missione:
 M1
Prompt:
 Presente
Titolo:
 L'ultimo degli amanti
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: / 
Note: /

<Non mi hai mai chiesto di Myka. O di Lukas. O di qualcuno dei miei ex in generale.>

Sta sorgendo il sole. La luce accennata rischiara prima le forme, poi le ombre e infine abbozza i colori marini della camera. L’aria fresca della notte non ha ancora abbandonato la mattina ed entra dalle finestre spalancate con grazia, facendo volteggiare gli impalpabili veli del baldacchino. E’ anche una manna per la pelle accaldata.

Ailo è sveglio, ma è come se non lo fosse. Il silenzio e la quiete dell’alcova parlano di un sogno, e di parole sussurrate per non stracciare quel sogno. 

<Avrei dovuto?>

Ora sono svegli in due. O stanno facendo lo stesso sogno, che è la cosa più romantica che può concepire alle cinque e mezzo di mattina, con gli occhi che si riempiono di alba e l’aria fresca d’estate che spazza via l’odore pesante del piacere. E delle candele all’oppio, quelle fantastiche candele all’oppio, che la Veggente le benedica.

Un raggio di sole arriva a lambirgli un piede con la sua calda carezza. Poi raggiunge anche la caviglia di chi è accanto a lui. Un viandante, che rifugge il tocco del sole e si stringe di più ai suoi fianchi, raggomitolato, ostinato. Meraviglioso.

<Non sei un po’ curioso? Non ci hai mai pensato? Nonostante quello che ti ho raccontato...>

Un viandante sa quanto sia prezioso il sonno, quanto il bacio del sole possa nuocere. Quanto il sapore del mare sia dolce nell’aria e pericoloso sulla lingua, letale in gola. 

Quella camera, lambita dalla luce e con sempre meno ombre, parla del viandante come neanche Ailo saprebbe fare. E la possiede Ailo più di quanto non faccia il vero proprietario. Ne conosce ogni anfratto, ogni spigolo sboccato, ogni conchiglia abbandonata. Il blu delle pareti è il suo blu e gli parla di pennelli e vernice tra i capelli e un pomeriggio di risate. Il bianco dei mobili è sporco di vita e di strada, di tintura e perfino di sangue. Del letto, saprebbe dare nome a ogni fossa.

<Cerco di non pensarci, in effetti. Per quanto mi riguarda, tutti i tuoi ex facevano schifo a letto, non erano belli o talentuosi nemmeno la metà di me e avevano l’intelligenza di una capra.>

<Sul serio? E’ questo che ti racconti per dormire?>

Un viandante sa quanto valga il sonno, e non vale la carezza di un amante, o una sua parola. E dormire sotto le stelle sarà anche mistico, ma non è paragonabile a un letto pieno di bozzi, all’odore di casa nelle lenzuola, a un abbraccio.

C’è il legno che scricchiola sotto i piedi appena scesi. I vestiti che gettano sempre per terra, tanto ci penseranno la mattina dopo. L’anta sinistra dell’armadio piagnucola quando la apri. Il catino con l’acqua non ne contiene abbastanza per entrambi. Si dimenticano sempre di spegnere le candele e le ritrovano consumate fino al limite. Quel sogno cigola da tutte le parti.

<Vuoi parlarmi dei tuoi ex?>

<No, non è questo.>

Ailo sente i raggi del sole risalire velocemente lungo le gambe, sul torace, sul viso. Deve tenere gli occhi chiusi ora, non c’è più la sua camera e non c’è più il mattino. Solo la brezza, il calore e un viandante che finge di dormire. 

Che strani pensieri si fanno di primo mattino. Nei sogni. All’alba.

<Non mi importa di chi è venuto prima di me. Non mi preoccupa, perché ora ci sono io. L’amore è l’unico gioco in cui vince chi arriva ultimo.>


COWT12

Feb. 13th, 2022 04:13 pm
Settimana: 1
Missione:
 M1
Prompt:
 Passato
Titolo:
 Glorie passate
Fandom: Arcane - League of Legends
Rating: M
Warning: Dub-con 
Note: 1° capitolo di "Le brave ragazze non scommettono"

In un raro momento di relativa pace...
Piltover si è davvero ingrassata e impigrita. Caitlyn di solito cerca sempre di difendere la sua città, di far notare che non è solo merda incrostata d’oro. Ci sono anche brave persone, persone volenterose, che ogni giorno fanno del bene e cercano di rendere il mondo un posto migliore per tutti. Certa gente, però, è proprio indifendibile.

L’hanno chiamata per un cespuglio di alloro. Lei, una dei migliori agenti della città, futuro - non troppo lontano, si spera - sceriffo di Piltover. Chiamata per violazione di proprietà privata da parte di un cespuglio.

La vedova Crowbridge, di casa Crowbridge, si era svegliata quella mattina con l’idea di organizzare un mastodontico brunch nel suo giardino. Fatte le dovute chiamate al catering, mandati gli inviti, era scesa nel suo prato per immaginarsi il trionfante evento esclusivo, i tendoni colorati mossi da una lieve brezza, le aiuole di rose ad appesantire l’aria di fragranza, i tavolini riccamente decorati e imbanditi, tutti che lodavano il suo buon gusto, le vecchie scope al di là della strada che crepavano di invidia… Poi aveva visto il cespuglio. 

Ne aveva visto tre rametti in croce, in realtà, una manciata di foglioline al massimo, oltre il muro di cinta. Apparteneva alla proprietà accanto e sconfinava nella sua.

Il rispettabile e illustre signor Van Fosten si definiva, e sicuramente continua a definirsi nonostante sia in pensione, un artista, un pioniere, un genio del suo campo. Ecco, campo è appropriato, dato che di piante si sta parlando. Di sculture di siepi, più precisamente. Basta un’occhiata per capire che non c’è niente a cui tenga di più a questo mondo. 

Immaginate la sua sorpresa quando, suonato il campanello e aperto il portone, si era trovato davanti la sua esigente vicina che criticava e si lamentava del suo ultimo capolavoro, un arbusto di alloro trasformato in un ponte a quattro pilastri. Che addirittura pretendeva di mutilarlo!

«Mi rovina la visuale!» Gridava una.

«Si vede appena!» Rispondeva l’altro.

«è nella mia proprietà!La tagli!»

«è la mia scultura! Non la tocchi!»

«è solo una pianta, vecchio rimbambito!»

«è un’opera d’arte, bisbetica maledetta!»

E chiamarono la polizia. E chiamarono Caitlyn. Due ore di discussione, due deposizioni e altrettante denunce e altre tre ore per sbrigare tutte le pratiche e la burocrazia dopo, è davanti la porta della sua camera, felice e stremata e allibita in egual misura.

Non vede l’ora di togliersi questi stivali. Magari un bagno caldo, prima di scendere per la cena. 

Quasi non nota Vi, stesa sul letto. Quasi. La verità è che è impossibile non notare Vi, soprattutto lì dentro. La sua camera è il perfetto equilibrio tra sobrietà, classe e ricercatezza, frutto di numerose discussioni tra lei, l’interior design più in voga della città e sua madre. è il regno delle curve morbide, le tinte pastello e gli spigoli abbozzati, le superfici levigate e la lucidità degli specchi. Vi, la ruvida e accesa Vi, spicca come una mosca schiacciata sulla tela bianca.

Caitlyn sente un nervo pizzicare dietro agli occhi alla vista delle scarpe sudice dell’altra sulle sue coperte. Ma ne ha abbastanza per oggi dei litigi per delle stupidaggini.

Lascia il fucile e la giacca sopra la prima mensola che trova e si avvicina al letto. «Cosa ci fai qui?»

Vi non la degna di uno sguardo, né pare sorpresa di sentire la sua voce. Ad occhi chiusi, continua a rotolarsi tra i suoi cuscini. «Sono stanca.» Si giustifica solo, mugugnando.

Una giornata pesante anche per lei. Non che questo l’autorizzi a sbavarle sulle coperte fresche di bucato. 

«Non ce l’hai un letto tuo?»

«Il tuo è più morbido, pasticcino.»

E ok, sicuramente è vero. Caitlyn non osa neanche immaginare dove dorma di solito Vi, quindi che usi pure il suo quando ne sente il bisogno.

Le sfila entrambi gli scarponi chiodati dai piedi e li lascia fuori dalla finestra, ci mette accanto anche i suoi stivali e la raggiunge sul letto.

Potrebbe diventare un’abitudine, trovarsi a riposare così. Succede più spesso di quanto non dovrebbe. 

Non può fare a meno di pensare a quando era piccola. Anche allora si raggomitolava su un fianco in quel letto enorme, circondandosi di peluche e i peluche se la contendevano, facevano a gara per chi sarebbe stato stretto nel suo abbraccio. Tutti volevano essere abbracciati da Caitlyn e lei si sentiva indispensabile. 

Ora nel suo letto c’è Vi, che dei peluche ha solo la voglia di combattere ed è più difficile sentirsi indispensabili con lei. Basta guardarla in faccia. Una roccia così non ha bisogno di niente e nessuno.

Caitlyn la guarda in viso una seconda volta. Si corregge: cerotti, la faccia di Vi ha bisogno di cerotti, disinfettante e qualche garza.

«Con chi hai fatto a botte?» Si solleva appena per afferarle delicatamente il volto e osservarlo meglio. Un taglio sul sopracciglio le allunga il volto. Sotto le dita sente la pelle screpolata, i graffi sulle guance e il sangue raggrumato sul mento. 

Vi solleva un angolo della bocca e la spaccatura al labbro si riapre, macchiandole i polpastrelli. «Ora sei un’investigatrice. Arrivaci da sola.»

«A meno che non hai una firma incisa da qualche parte su questo capolavoro, temo dovrai darmi una mano.» 

Le sposta il ciuffo di capelli da un lato e quattro nocche violacee compaiono sulla tempia. Le ciglia di Vi le fanno il solletico quando l’accarezza. è a un soffio dall’occhio. 

Un solo uomo non può essere arrivato a tanto. Ne due, ne tre… Forse una banda, una mezza dozzina di ratti codardi. 

Caitlyn le lascia il volto all’improvviso quando un’illuminazione la coglie. Si solleva di più e afferra Vi per le spalle, inchiodandola al letto. Se ne pente subito e, prima ancora di sentire il gemito di dolore, solleva le mani. Ma il gemito non arriva. 

Vi è lì stesa e la trapassa da parte a parte con gli occhi gelidi. Caitlyn rimette le mani sulle sue spalle.

«Sei ferita da altre parti?»

Il sorriso sprezzante di lei parla da sé, ma Caitlyn sa dove andare a parare. Come un fulmine, lascia scivolare le mani lungo le sue braccia fino ad arrivare a stringere le sue. 

Non c’è un gemito neanche stavolta, ma Vi strizza gli occhi e stringe le labbra. Sotto le dita, Caitlyn riconosce cicatrici vecchie di settimane, mesi, anni e la viscosità del sangue fresco. 

«Puliamo queste ferite.» dice, facendo leva sulle ginocchia per alzarsi. Perché non voglio che si infettino, vorrebbe aggiungere, ma Vi è troppo orgogliosa per non minimizzare in queste occasioni, così dice: «O mi sporcherai tutte le lenzuola.»

«Dopo.»

Le mani che ancora si stringono, Vi le usa per tirarla di nuovo giù.

«Dopo.» Ripete, con voce soffice, la voce da sorella. è un pugno allo stomaco, quella voce.

Caitlyn la guarda con tutta la disapprovazione che il suo cipiglio può trasmettere, ma non si alza e non le lascia le mani.

«Con chi hai fatto a botte?»

«Cosa c’è, vuoi vendicarmi, pasticcino?»

«Farei un lavoro più pulito.»

Torna il sorriso sprezzante. «Non disturbarti, sono già tutti sistemati. A quest’ora staranno raccogliendo i denti per tutta la baia.» Butta fuori un sospiro soddisfatto e rotola per un quarto nella sua direzione. «La loro sfortuna è che erano troppo ubriachi per riconoscermi.»

Uno scontro non troppo sbilanciato come Caitlyn aveva temuto all’inizio, allora. Se conosce bene Vi, e ormai può permettersi di dirlo, non ci sarà andata giù troppo pesante. Se uno scontro non è alla pari non la diverte. Fossero stati in un bar, si sarebbe scolata una bottiglia anche lei.

Un pensiero curioso la stuzzica. «Ti sei mai ubriacata?» Magari può approfittarne per conoscerla anche meglio.

«Certo.» Vi risponde senza pensarci un momento, come fosse normale, scontato.

Caitlyn cerca di immaginarsela ubriaca e le scappa uno sbuffo divertito. Poi mette insieme i pezzi della vita di Vi: non può certo averlo fatto in prigione. Quindi prima, quando era una ragazzina. Una ragazzina.

L’immagine di suo padre che le passa di nascosto un sorso di alcolico a un ricevimento della Consulta, quando era anche lei una ragazzina, le torna alla mente. Ricorda un liquido ambrato, frizzava infondo alla gola in modo spiacevole. Non le era piaciuto. Lo aveva vuotato nel vaso di una pianta.

«So a cosa stai pensando.» Dice Vi, contagiata dal suo risolino e evidentemente ignara del freddo che è calato su di lei subito dopo. «Ti assicuro che anche da ubriaca so il fatto mio. Anzi, picchio ancora più duro.»

E così Vi le racconta di quella volta in cui scommise con Milo che sarebbe stato in grado di batterlo perfino dopo tre bicchieri di birra scura. Caitlyn non ribatte, rimane in silenzio e intreccia le caviglie con le sue per scaldarsi i piedi. Con le unghie le gratta via le crosticine di sangue secco sulle mani e l’ascolta.

Il primo bicchiere era andato giù come olio sugli ingranaggi. Al secondo, non sentiva più il dolore e la fatica. Al terzo, vedeva i colpi di Milo prima che li sferrasse, riusciva a prevedere le sue mosse e gli spiriti dei dannati dei vicoli inneggiavano il suo nome, la sorreggevano e guidavano i suoi pugni verso il bersaglio. Ovviamente vinse la scommessa.

«Che cosa avevate scommesso?»

«Chi vince può chiedere qualsiasi cosa al perdente.»

«Qualsiasi cosa? Ma...»

«Funziona così nei vicoli. Se non hai le palle, non giochi.»

«Hai mai perso?»

Una volta. O forse più di una; perdeva spesso contro Vander ma suo padre chiedeva cose impossibili, tipo stare fuori dai guai, e non c’era modo di accontentarlo. Una volta perse contro un rigattiere del confine. Aveva la sua bottega sopra, alla luce del sole, quasi affacciata al canale, ma era chiaramente dei vicoli e trattava con la gente dei vicoli. Vander ci andò solo una volta, per Vandere un gioiello scheggiato, e portò Vi con lui.

Nonostante la bella posizione, il negozio era buio, polveroso e odorava di aria stantia, come se le finestre dai vetri opachi non venissero aperte mai. Un vero peccato, vista l’aria pulita che si poteva respirare fuori. Anche il proprietario era buio, polveroso e odorava di stantio. Un ometto calvo, ricoperto di pellicce male assortite, con il naso adunco e le dita inanellate. Aveva chiesto a Vander di lasciargli la ragazza per un pomeriggio: c’erano un sacco di scatole da spostare in magazzino e lui non era più giovane come una volta.

«Aiutami a finire in giornata e ti pagherò bene.»

Vi aveva guardato le casse accatastate sul retro della bottega e ne aveva saggiate un paio. 

«Scommetto che riesco a finire per le cinque.»

Non voleva lanciare una sfida, lo aveva detto tra sé e sé. Il rigattiere invece l’aveva osservata con uno sguardo tutto del suo mestiere. Aveva fiutato un buon affare.

«Accetto la scommessa. Per le cinque.» Aveva scrollato le spalle e il sacchetto alla sua cintura aveva cantato moneta sonante. Lui lo aveva accarezzato appena, prima di aggiustarsi la pelliccia con studiata indifferenza. Sì, era stato proprio bravo.

«Andata.» Vi si era rimboccata le maniche e aveva sollevato casse come se ne andasse della sua vita.

Con un occhio teneva sotto controllo il sole, con l’altro dove metteva i piedi. Le scatole di legno pesavano molto, probabilmente c’era del metallo dentro, o della pietra. Dopo solo due dozzine di viaggi le braccia già le facevano male, ma non rallentò di un secondo. 

Fu quando si permise di credere di farcela che le cose presero una brutta piega. Mancavano un paio d’ore e aveva già tolto di mezzo tutte le casse impilate ai piani alti della piramide, ne mancavano giusto una cinquantina. Ma quando fece per prenderne in braccio una, questa gli sfuggì di mano e per poco non cadde anche lei.

Era pesantissima. 

Molto più di cinque minuti prima, quando l’aveva spostata con un calcio. Se ci avesse provato adesso sospettava che si sarebbe rotta il piede. Non capiva. Era la stessa cassa, nessuno l’aveva aperta o toccata. 

Per portarla in magazzino impiegò il triplo del tempo delle precedenti. E così fu per tutte quelle a seguire. Quando finì, il sole era bello che tramontato e l’aria fresca della notte le gelava il sudore sulla pelle. I crampi alle gambe le impedivano di tenersi in piedi e dalla punta delle mani alle scapole era tutto un torpore.

Caitlyn ha finito il sangue secco da grattare e stupidamente si è messa a massaggiare le dita di Vi, come per scacciare quel torpore fantasma. «Che cosa era successo?» chiede, sinceramente curiosa. 

«Il rigattiere me lo ha spiegato… dopo. Lì affianco c’era un magnete gigante attaccato a un montacarichi, che i pescatori di rottami utilizzavano per tirare fuori dall’acqua i relitti più pesanti. Lui aveva intenzione di usare quello per spostare le casse, prima che arrivassi, e ovviamente me lo ha tenuto nascosto una volta scommesso. Lo ha azionato alla fine per rendermi più difficile il lavoro.»

«Ha imbrogliato.» Riassume Caitlyn. Aveva aspettato di vedere se Vi ce la potesse effettivamente fare, e poi aveva tirato fuori il suo asso nella manica.

«è stato furbo. E io stupida, avrei dovuto controllare i dintorni.»

«Cosa ti ha chiesto per la scommessa?» Caitlyn immagina che si sia tenuto i suoi soldi.

«Ha voluto scopare con me.» 

Per un attimo, è sinceramente confusa. Pensa davvero di aver sentito male. L’attimo dopo sta sperando, con tutte le sue forze, di aver sentito male. 

Scatta a sedere come una molla. «Che cosa?»

Vi aggrotta le sopracciglia martoriate e stringe l’aria con le mani. «Qual è il tuo problema?»

«Quale-qual è il mio problema? Sei veramente andata a letto con quel tizio?»

La cosa stranamente non fa inorridire Vi quanto lo fa con lei. Caitlyn lo odia. 

«Era il prezzo della scommessa.»

«Vi.» Vi. Una ragazzina. Vi che lavora sodo per la sua famiglia. Vi disposta a tutto per la sua famiglia. Caitlyn chiude tutto fuori, prima di vomitare. «Mi stai prendendo per il culo? Se è così, smettila subito.»

Vi si stacca da lei con la rapidità di un serpente che attacca. Si chiude in posizione di difesa. 

«Avevo dimenticato quanto fossi pudica, pasticcino.» Dice. Ma, al di là delle ferite, il suo viso parla di una bestia in trappola, lo sguardo che si riserva a un nemico. 

Caitlyn si sente come la prima volta, sbarre massicce a separarle, occhi gelidi nei suoi che gridano: “Sei troppo diversa, non puoi capire, voi non capirete mai.”

Priorità, Caitlyn. Le mani le prudono tanta è la voglia di imbracciare un fucile. La nausea è ancora in agguato, insieme alle implicazioni, alle immagini a cui non vuole pensare. Priorità. Vi.

«Scusami.» Di che diavolo si sta scusando? Priorità. «Ho esagerato. Solo…»

«Pudica.» Vi non si rilassa nemmeno un poco, ma almeno abbozza un sorriso e non sembra volerle sferrare un pugno in mezzo agli occhi.

Il silenzio tra di loro si riempie di tensione. Di chiederle «Continua a raccontare.» caitlyn non ci pensa proprio. Conta le macchie di sangue che sono cadute sulle lenzuola, una a una, e decide di aspettare Vi.

Vi che probabilmente si alzerà e fuggirà in ritirata verso la porta, se non direttamente dalla finestra. La lascerà andare questa volta? Beh, per come la vede lei, la situazione si può risolvere in due modi. Lasciare effettivamente che si allontani e si schiarisca le idee. O darle della codarda e scatenare una rissa in camera sua. Sua madre ne sarebbe deliziata.

 «Era la mia prima volta.» A sorprenderla, Vi riprende parola. «è stata esattamente come te la immagini.»

Bello schifo, allora.

Caitlyn torna a stringerle una mano e sospira internamente, lieta, quando Vi ricambia la stretta. 

Magari è ora di sistemare quelle ferite, anche se ormai si può fare ben poco.

Ancora una volta Vi la blocca e trascina indietro. Invece di cadere sul letto, finisce in grembo alla ragazza e due braccia risolute la circondano per la vita. Caitlyn è quasi più sorpresa di prima e penosamente consapevole di ogni respiro che le preme sulla schiena. 

«Dolce… Pudica…» Blatera Vi, premendo il naso tra le sue scapole. Sente il principio di una risata nel suo tono.

«Ti hanno colpito alla testa più forte di quanto pensassi.» Si muove un po’ a disagio. La tentazione di lasciarsi completamente andare all’indietro è davvero grande.

Vi la ignora. «Credo di aver capito più di una cosa su di te, pasticcino. Facciamo una scommessa?»


COWT12

Feb. 13th, 2022 03:35 pm
Settimana: 1
Missione:
 M1
Prompt:
 Futuro
Titolo:
 Sordo e blasfemo
Fandom: Originale
Rating: T
Warning: /
Note: /

Il Palazzo dell’Alba è meno… meno di quanto Ailo si aspettasse. Meno di quanto i racconti o le leggende lascino intendere. Dal timore reverenziale con cui ne parlano nel paese e dall’orgoglio tangibile nella voce dei Monaci, si aspettava un castello imponente e maestoso, con alte torri di cui si perde il conto, distinto su un’altura che domina la valle sottostante. I mattoni d’alabastro che catturano i primi raggi del sole e annunciano il nuovo giorno come un faro nella tempesta.

Invece quello che trova alla fine del Sentiero degli Intrecci è poco più che una villa con un muro di cinta, due timide torrette a levarsi oltre il tetto dell’edificio principale. Sulla facciata, schizzi di fango e si arrampicano lungo le mura fino alla vita e le erbacce hanno conquistato almeno la metà delle crepe. E sarà che il cielo è nuvoloso quel giorno, ma il Palazzo non risplende per niente, anzi, sembra assorbire l’umidità come una spugna e ripresentarla agli occhi dei visitatori con un grigiore uggioso. Se non fosse per gli stendardi, Ailo l’avrebbe scambiata per la triste residenza invernale di un nobile minore e avrebbe tirato dritto per la strada.

Nonostante manchi più di un’ora alla cerimonia, il Palazzo sembra già oltre la sua capienza massima. Viandanti di semplice passaggio e curiosi dei villaggi vicini occupano le strade, del cortile, le panche ai lati dei camminamenti e si spingono fin oltre gli archi dell’androne. Chiacchierano tra loro, eccitati per una novità che non sia il raccolto del mese, un neonato venuto al mondo o il matrimonio di turno. Ogni tanto si scorge un guizzo scarlatto della tonaca dei Monaci, che si muovono da una parte all’altra del Palazzo scartando i meno veloci a spostarsi dal loro cammino e non guardando in faccia nessuno.

Ailo deve penare non poco per acciuffarne uno, un novizio accaldato con le sopracciglia aggrottate che prima cerca di scrollarselo di dosso senza guardarlo e poi lo fulmina con lo sguardo. Basta che gli mostri, però, il timbro sulla lettera ricevuta settimane prima dall’Alto Monaco di Linat perché la fronte del ragazzo si spiani dalla sorpresa. Il novizio cambia subito atteggiamento, voltandosi tanto per cominciare interamente dalla sua parte. 

Ailo viene accompagnato, quasi scortato, in un’ala del Palazzo strenuamente difesa dalla confusione che lo ha accerchiato, in una libreria discretamente fornita dove già attendono una mezza dozzina di altre persone. Il portone chiuso dietro di sé attutisce i rumori esterni in maniera impeccabile. Nell’aria aleggia un odore delicato di lavanda e timo, appena speziato da qualsiasi sia l’intruglio che sta fumando l’individuo incappucciato in un angolo.

Ed è in quell’inaspettata oasi di pace che la sua mente, senza più stimoli su cui concentrarsi, riprende a macchinare. Eccolo, al Palazzo dell’Alba. Come gli aveva detto il suo patrigno? Il Palazzo dell’Alba per la nuova alba che sta per sorgere nella sua vita. Un’alba placida, o magari rosso sangue, o rannuvolata da nuvole di temporale. Un tuono in lontananza riverbera sotto gli infissi della finestra e sembra suggerirgli quell’ultima risposta.

Ailo non ha nessuna voglia di camminare tra due ali di curiosi impiccioni, inginocchiarsi su un altare di nuda, polverosa e scomoda pietra e sentirsi dire da un vecchio Monaco flaccido quale sarà il suo futuro. Il suo destino. Ha promesso che se lo sarebbe scelto da solo. Lui e Myka hanno giurato. La loro vita, a modo loro. 

Quella è solo una formalità, una perdita di tempo, tuttavia necessaria per mantenere le apparenze. 

Nell’ora successiva, in preda alla noia, all’agitazione, al malcontento e a una strana voglia di trasgressione, prova ad uscire dall’ala dei prescelti solo per esserci rispedito dentro dopo tre passi. Prova a chiedere uno spuntino, che gli viene negato. Domanda un bicchiere di vino o speziato e gli portano dell’acqua. Succo? Acqua. Quella sacralità ostentata e fasulla gli dà sui nervi.

Alla fine, arriva a chiedere allo sconosciuto fumatore un assaggio della sua pipa e si limita a passare il tempo sfogliando qualche libro. 

All’arrivo della sua ora, lascia cadere il volume d’erboristeria a terra senza rimetterlo sullo scaffale e segue il Monaco con indulgenza. Accarezza le pareti d’alabastro dei corridoi che attraversano e il freddo sotto le dita manda brividi compiti a scuotergli la schiena. La reazione gli ricorda altri brividi, bollenti. Chissà cosa succede se si mette a fantasticare sulle notti profane con Myka durante la cerimonia. Il destino arrossirà e lo fulminerà per la sua indecenza?

La navata dove si svolge la cerimonia è dello stesso triste colore del resto del Palazzo, con qualche cero acceso che prova senza successo ad illuminare un po’ più l’ambiente. E’ gremita di gente e tutti guardano lui. Ailo non li vede, è immerso nel calore delle sue lenzuola giù a Città della Luna, a bearsi della compagnia, del piacere effimero e della gioventù. Il futuro è qualcosa di lontano, che non lo tocca. 

Cammina fino all’altare e si beffa di ogni Monaco irrigidito nella tunica e nei divieti, inarca mollemente il collo, fa ciondolare la testa e i ciuffi biondi che gli sfiorano le guance, si umetta le labbra. Quando si inginocchia, un risolino divertito gli sfugge dalla bocca. 

Che gli dicano che è destinato alla grandezza, o alla rovina, o al nulla. Che costruirà imperi o li ridurrà in cenere, che sarà causa di sofferenza o di gioia, odiato o temuto, glorificato o dimenticato. Che dicano quel che vogliono, quel che il destino sussurra loro all’orecchio. 

Lui sarà sordo e blasfemo.


COWT12

Feb. 13th, 2022 01:47 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
 Fortuna
Titolo:
 Una bottiglia di fortuna
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: /
Note: /

Lo specchio pesava un accidente e la scala ancora di più. Andrea posò entrambi nel vano dell’ascensore e li spedì su al quarto piano. Sulle dita formicolanti gli erano rimasti i residui incrostati della vernice dorata della cornice, un pezzo d’antiquariato buono solo a prender polvere ormai. Se le pulì sui jeans già sporchi, mentre saliva le scale con un sospiro.

Di tentare di tenere il passo dell’ascensore non ci aveva nemmeno pensato, e che Bea cominciasse a trafficare con quegli arnesi da sola. Ancora doveva capire bene a cosa servissero esattamente una scala, uno specchio e un gatto nero. E lui, ovviamente.

Quando arrivò sul pianerottolo giusto, l’ascensore lo attendeva a porte aperte e così Bea, immobile e sorridente lì accanto. Sempre sorridente, quella tappetta, dava l’idea di una frizzante lattina di Cola che agitata troppo sarebbe scoppiata. Il gatto di sua nonna, Arcobaleno, le scivolava tra le gambe con l’egocentrismo che è tutto della sua specie, grattandosi la schiena sulle sue calze pesanti e fregandosene del nuovo arrivato.

Per qualche momento, nessuno si mosse. Poi, con un unico guizzo d’occhi, Bea gli indicò l’ascensore ancora aperto.

Ovviamente tocca a me.

Andrea sospirò di nuovo. Passi per la scala, che se cadeva addosso a Bea la piantava nel terreno, ma almeno lo specchio poteva sforzarsi di trascinarlo. Niente da fare: appena lo vide muoversi, lo scricciolo sgusciò fino all’ingresso del suo appartamento e piazzò una mano sulla pesante porta che si teneva aperta benissimo da sola.

Arcobaleno fu il primo a entrare, sicuro e vero padrone di casa, e Andrea seguì le sue chiappette pelose ben più affaticato e pesante di ingombri.

<Grazie Andy, appoggia pure dove vuoi.> Bea indicò con un largo movimento del braccio tutta la casa, fino a fermarlo in una direzione precisa.. <In cucina ci sono i biscotti.>

E c’erano davvero, benedetta nonna di Bea e benedetta la sua passione per i biscotti. Se ne infilò subito in bocca due, alla cannella e con la forma di fiori schiacciati. Sgranocchiando il terzo ritrovò anche la voce per parlare. 

<Ripetimi cosa stiamo facendo.>

Bea, nel mentre che lui si ingozzava, non aveva perso tempo. Aveva recuperato un libro dall’aspetto cadente e dei gessetti colorati e si era messa a disegnare sul pavimento dell’ingresso, tra lo specchio e la scala appena portati,  l’appendiabiti e il mobiletto cerato addossato a un muro.

Un pensiero fugace passò nella mente di Andrea: se avesse fatto lui una cosa del genere sul parquet di casa sua, sua madre lo avrebbe ucciso a padellate. Quella casa e quel pavimento in particolare, invece, sembravano conoscere intimamente la carezza del gesso e dei sigilli tracciati con esso. 

Bea sollevò la testa, non smettendo di tracciare cerchi un po’ tremolanti con una mano, e quando gli rispose l’entusiasmo era tangibile nella sua voce. <Oggi noi creeremo tana di quella fortuna da riempire una bottiglia.>

<Fortuna.> ripetè Andrea. Spostò lo sguardo sulla scala, poi sullo specchio. Arcobaleno si acciambellò sulla spalliera, una macchia nera sulla trapunta a scacchi, e fissò anche lui.

Bea annuì energicamente. Gli fece segno di prendere la bottiglia di plastica vuota appoggiata su uno scaffale e di raggiungerla. Gliela strappò di mano non appena finito il disegno - una manciata di cerchi intersecati con delle croci più o meno angolate - e la posizionò al centro di esso.

<Ci siamo.> Si sedette a gambe conserte ad un palmo della linea più esterna. Poi la sua attenzione fu tutta per lui. <Vai e comincia dalla scala. Passaci sotto.>

<Sicura che funzionerà? Non porta sfiga?>

<Sì, infatti!>

Bea dovette leggere tutta la sua perplessità sul viso, perché sollevò un dito con aria sapiente e aggiunse: <E’ più facile raccogliere sfortuna e specchiarla piuttosto che cercare la fortuna in sé. O avevi forse a portata di mano un coniglio a cui tagliare una zampa?>

<Sono sorpreso che tu o tua nonna non abbiate un coniglio per queste occasioni.>

Lei fa una faccia scandalizzata, gridando il suo disappunto. E gli indica di nuovo la scala.

Andrea ingoia un ultimo biscotto e si avvicina a quel mucchio consumato di assi di legna. La posiziona un po’ meglio appoggiata alla parete, così che non gli cada improvvisamente in testa e ci passa sotto con passo svelto. Non succede niente. Nessuna esplosione di luci o sfrigolanti scintille, l’occulto non lo folgora con il suo occhio e la terra non si apre per divorarlo da capo a piedi. Sette anni di sfiga e non sentirli.

Butta un’occhiata verso Bea e la bottiglia, l’una esaltata, l’altra immutata.

<Non mi sembra che funzioni.>

<Ma certo che funziona! Sta funzionando! Forza, ora rompi lo specchio.>

Rimangono a fissarsi con aspettativa l’un l’altro, aspettativa che si trasforma in biasimo. Si aspetta forse che rompa lo specchio a pugni? 

<Con cosa dovrei romperlo?>

La domanda colpisce Bea come se si ponesse solo ora il problema. 

<Non saprei…Prova con una scarpa?>

Andrea non ha bisogno di guardarsi i piedi. Le sue adorate sneakers sono più leggere di un mattone e molto meno efficaci. E col cavolo che le userà per una cosa tanto barbara.

<Oh! Oh, lo so cosa puoi usare! Aspetta un attimo.>

La ragazza fa per alzarsi ma ricade con una smorfia a gambe incrociate sul pavimento. <Non mi posso alzare…Vai tu, vai in cucina.>

Torna in cucina e per prima cosa frega un altro biscotto. Bea blatera di tavole in ardesia per il sushi appena comprate e perfette per sfasciare suppellettili, ma Andrea la ignora. Ha adocchiato dei mestoli di metallo appesi sopra i fornelli. Li valuta, sgranocchiando un altro biscotto.

Decide che quello per il brodo, dal manico lungo e la testa a semisfera fa al caso suo. Lo sgancia dalla mensola e si attarda per cercare anche un guanto sotto il lavandino, per poi tornare all’ingresso.

Lo specchio è dove lo ha lasciato, accasciato ad una colonna portante come un vecchia comare su una panchina al sole. Si posizione da un lato e prende la mira con il mestolo. Scrash! Arcobaleno schizza via dal suo giaciglio prima ancora che i frammenti di vetro tocchino terra. Andrea sente il fracasso del colpo risalire il braccio e scuotergli la spina dorsale, gli fa stridere i denti e venir voglia di infilarsi dell’ovatta nelle orecchie. 

Poco più in là, Bea sbircia tra le mani che ha avuto l’accortezza di mettersi davanti al viso. La bottiglia è ancora ridicolmente vuota e immobile, eppure da come lei si agita sul posto si direbbe che si stia riempiendo di oro liquido.

<Bene, molto bene! Ne manca ancora un po’, solo un po’.> Si guarda freneticamente intorno, alla ricerca dell’ultima trappola acchiappa-sfiga, ma il gatto è scomparso chissà dove.

Ovviamente tocca ad Andrea cercarlo, sotto le indicazioni sempre più insistenti di Bea. Per un quarto d’ora vaga per la casa della sua famiglia misurando ogni passo, ogni movimento, conscio che quello nelle boccette probabilmente non è profumo, le piante decorative non sono nè di plastica, men che meno innocue ed è meglio non respirare troppo nelle vicinanze del camino. 

Trova infine Arcobaleno sotto al letto nella stanza di Bea, addossato nell’angolo, attento ad ogni sua mossa. Sa che quello sguardo significa “Allunga una mano in questa direzione e la userò per affilarmi gli artigli”.

<Cazzo, potresti collaborare.> 

Arcobaleno non collabora e Andrea si ritrova la mano graffiata nonostante il guanto. Tornato all’ingresso, lo lancia in braccio a Bea, che lo riempie di moine prima di lasciarlo andare per la sua strada, strada che questa volta lo porta a rifugiarsi sotto il divano. Lei gli fa cenno di camminare oltre il punto dove è saettato il gatto. 

Questa volta, gli sembra di cogliere con la coda dell’occhio un guizzo, un’increspatura dell’aria sul collo della bottiglia, una goccia trasparente di troppo che scivola giù. Per quando si volta, però, l’impressione è già svanita e Bea chiude con il tappo una bottiglia vuota e leggera quanto lo era due minuti prima. E’ quasi deludente.

<Il signor Enemene me la pagherà bene.> Bea valuta e borbotta, borbotta e valuta e la bottiglia rotola nelle sue mani. <Almeno 500 euro… due litri abbondanti… ti darò la tua parte giovedì, Andy.>

Prima che possa ragionare su cosa sta facendo, Andrea allunga una mano e afferra la bottiglia. E’ vuota. Leggerissima. Aria e plastica. <Funziona davvero?>

<Dubiti delle mie capacità?> Bea si imbroncia.

Onestamente? Sì. Quella bottiglia è vuota. Ma, ora che ci pensa meglio, non gli importa davvero. 500 euro per un po’ di fortuna o 500 euro per un’illusione? In ogni caso, giovedì avrà la sua parte.

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