In un raro momento di relativa pace...
Piltover si è davvero ingrassata e impigrita. Caitlyn di solito cerca sempre di difendere la sua città, di far notare che non è solo merda incrostata d’oro. Ci sono anche brave persone, persone volenterose, che ogni giorno fanno del bene e cercano di rendere il mondo un posto migliore per tutti. Certa gente, però, è proprio indifendibile.
L’hanno chiamata per un cespuglio di alloro. Lei, una dei migliori agenti della città, futuro - non troppo lontano, si spera - sceriffo di Piltover. Chiamata per violazione di proprietà privata da parte di un cespuglio.
La vedova Crowbridge, di casa Crowbridge, si era svegliata quella mattina con l’idea di organizzare un mastodontico brunch nel suo giardino. Fatte le dovute chiamate al catering, mandati gli inviti, era scesa nel suo prato per immaginarsi il trionfante evento esclusivo, i tendoni colorati mossi da una lieve brezza, le aiuole di rose ad appesantire l’aria di fragranza, i tavolini riccamente decorati e imbanditi, tutti che lodavano il suo buon gusto, le vecchie scope al di là della strada che crepavano di invidia… Poi aveva visto il cespuglio.
Ne aveva visto tre rametti in croce, in realtà, una manciata di foglioline al massimo, oltre il muro di cinta. Apparteneva alla proprietà accanto e sconfinava nella sua.
Il rispettabile e illustre signor Van Fosten si definiva, e sicuramente continua a definirsi nonostante sia in pensione, un artista, un pioniere, un genio del suo campo. Ecco, campo è appropriato, dato che di piante si sta parlando. Di sculture di siepi, più precisamente. Basta un’occhiata per capire che non c’è niente a cui tenga di più a questo mondo.
Immaginate la sua sorpresa quando, suonato il campanello e aperto il portone, si era trovato davanti la sua esigente vicina che criticava e si lamentava del suo ultimo capolavoro, un arbusto di alloro trasformato in un ponte a quattro pilastri. Che addirittura pretendeva di mutilarlo!
«Mi rovina la visuale!» Gridava una.
«Si vede appena!» Rispondeva l’altro.
«è nella mia proprietà!La tagli!»
«è la mia scultura! Non la tocchi!»
«è solo una pianta, vecchio rimbambito!»
«è un’opera d’arte, bisbetica maledetta!»
E chiamarono la polizia. E chiamarono Caitlyn. Due ore di discussione, due deposizioni e altrettante denunce e altre tre ore per sbrigare tutte le pratiche e la burocrazia dopo, è davanti la porta della sua camera, felice e stremata e allibita in egual misura.
Non vede l’ora di togliersi questi stivali. Magari un bagno caldo, prima di scendere per la cena.
Quasi non nota Vi, stesa sul letto. Quasi. La verità è che è impossibile non notare Vi, soprattutto lì dentro. La sua camera è il perfetto equilibrio tra sobrietà, classe e ricercatezza, frutto di numerose discussioni tra lei, l’interior design più in voga della città e sua madre. è il regno delle curve morbide, le tinte pastello e gli spigoli abbozzati, le superfici levigate e la lucidità degli specchi. Vi, la ruvida e accesa Vi, spicca come una mosca schiacciata sulla tela bianca.
Caitlyn sente un nervo pizzicare dietro agli occhi alla vista delle scarpe sudice dell’altra sulle sue coperte. Ma ne ha abbastanza per oggi dei litigi per delle stupidaggini.
Lascia il fucile e la giacca sopra la prima mensola che trova e si avvicina al letto. «Cosa ci fai qui?»
Vi non la degna di uno sguardo, né pare sorpresa di sentire la sua voce. Ad occhi chiusi, continua a rotolarsi tra i suoi cuscini. «Sono stanca.» Si giustifica solo, mugugnando.
Una giornata pesante anche per lei. Non che questo l’autorizzi a sbavarle sulle coperte fresche di bucato.
«Non ce l’hai un letto tuo?»
«Il tuo è più morbido, pasticcino.»
E ok, sicuramente è vero. Caitlyn non osa neanche immaginare dove dorma di solito Vi, quindi che usi pure il suo quando ne sente il bisogno.
Le sfila entrambi gli scarponi chiodati dai piedi e li lascia fuori dalla finestra, ci mette accanto anche i suoi stivali e la raggiunge sul letto.
Potrebbe diventare un’abitudine, trovarsi a riposare così. Succede più spesso di quanto non dovrebbe.
Non può fare a meno di pensare a quando era piccola. Anche allora si raggomitolava su un fianco in quel letto enorme, circondandosi di peluche e i peluche se la contendevano, facevano a gara per chi sarebbe stato stretto nel suo abbraccio. Tutti volevano essere abbracciati da Caitlyn e lei si sentiva indispensabile.
Ora nel suo letto c’è Vi, che dei peluche ha solo la voglia di combattere ed è più difficile sentirsi indispensabili con lei. Basta guardarla in faccia. Una roccia così non ha bisogno di niente e nessuno.
Caitlyn la guarda in viso una seconda volta. Si corregge: cerotti, la faccia di Vi ha bisogno di cerotti, disinfettante e qualche garza.
«Con chi hai fatto a botte?» Si solleva appena per afferarle delicatamente il volto e osservarlo meglio. Un taglio sul sopracciglio le allunga il volto. Sotto le dita sente la pelle screpolata, i graffi sulle guance e il sangue raggrumato sul mento.
Vi solleva un angolo della bocca e la spaccatura al labbro si riapre, macchiandole i polpastrelli. «Ora sei un’investigatrice. Arrivaci da sola.»
«A meno che non hai una firma incisa da qualche parte su questo capolavoro, temo dovrai darmi una mano.»
Le sposta il ciuffo di capelli da un lato e quattro nocche violacee compaiono sulla tempia. Le ciglia di Vi le fanno il solletico quando l’accarezza. è a un soffio dall’occhio.
Un solo uomo non può essere arrivato a tanto. Ne due, ne tre… Forse una banda, una mezza dozzina di ratti codardi.
Caitlyn le lascia il volto all’improvviso quando un’illuminazione la coglie. Si solleva di più e afferra Vi per le spalle, inchiodandola al letto. Se ne pente subito e, prima ancora di sentire il gemito di dolore, solleva le mani. Ma il gemito non arriva.
Vi è lì stesa e la trapassa da parte a parte con gli occhi gelidi. Caitlyn rimette le mani sulle sue spalle.
«Sei ferita da altre parti?»
Il sorriso sprezzante di lei parla da sé, ma Caitlyn sa dove andare a parare. Come un fulmine, lascia scivolare le mani lungo le sue braccia fino ad arrivare a stringere le sue.
Non c’è un gemito neanche stavolta, ma Vi strizza gli occhi e stringe le labbra. Sotto le dita, Caitlyn riconosce cicatrici vecchie di settimane, mesi, anni e la viscosità del sangue fresco.
«Puliamo queste ferite.» dice, facendo leva sulle ginocchia per alzarsi. Perché non voglio che si infettino, vorrebbe aggiungere, ma Vi è troppo orgogliosa per non minimizzare in queste occasioni, così dice: «O mi sporcherai tutte le lenzuola.»
«Dopo.»
Le mani che ancora si stringono, Vi le usa per tirarla di nuovo giù.
«Dopo.» Ripete, con voce soffice, la voce da sorella. è un pugno allo stomaco, quella voce.
Caitlyn la guarda con tutta la disapprovazione che il suo cipiglio può trasmettere, ma non si alza e non le lascia le mani.
«Con chi hai fatto a botte?»
«Cosa c’è, vuoi vendicarmi, pasticcino?»
«Farei un lavoro più pulito.»
Torna il sorriso sprezzante. «Non disturbarti, sono già tutti sistemati. A quest’ora staranno raccogliendo i denti per tutta la baia.» Butta fuori un sospiro soddisfatto e rotola per un quarto nella sua direzione. «La loro sfortuna è che erano troppo ubriachi per riconoscermi.»
Uno scontro non troppo sbilanciato come Caitlyn aveva temuto all’inizio, allora. Se conosce bene Vi, e ormai può permettersi di dirlo, non ci sarà andata giù troppo pesante. Se uno scontro non è alla pari non la diverte. Fossero stati in un bar, si sarebbe scolata una bottiglia anche lei.
Un pensiero curioso la stuzzica. «Ti sei mai ubriacata?» Magari può approfittarne per conoscerla anche meglio.
«Certo.» Vi risponde senza pensarci un momento, come fosse normale, scontato.
Caitlyn cerca di immaginarsela ubriaca e le scappa uno sbuffo divertito. Poi mette insieme i pezzi della vita di Vi: non può certo averlo fatto in prigione. Quindi prima, quando era una ragazzina. Una ragazzina.
L’immagine di suo padre che le passa di nascosto un sorso di alcolico a un ricevimento della Consulta, quando era anche lei una ragazzina, le torna alla mente. Ricorda un liquido ambrato, frizzava infondo alla gola in modo spiacevole. Non le era piaciuto. Lo aveva vuotato nel vaso di una pianta.
«So a cosa stai pensando.» Dice Vi, contagiata dal suo risolino e evidentemente ignara del freddo che è calato su di lei subito dopo. «Ti assicuro che anche da ubriaca so il fatto mio. Anzi, picchio ancora più duro.»
E così Vi le racconta di quella volta in cui scommise con Milo che sarebbe stato in grado di batterlo perfino dopo tre bicchieri di birra scura. Caitlyn non ribatte, rimane in silenzio e intreccia le caviglie con le sue per scaldarsi i piedi. Con le unghie le gratta via le crosticine di sangue secco sulle mani e l’ascolta.
Il primo bicchiere era andato giù come olio sugli ingranaggi. Al secondo, non sentiva più il dolore e la fatica. Al terzo, vedeva i colpi di Milo prima che li sferrasse, riusciva a prevedere le sue mosse e gli spiriti dei dannati dei vicoli inneggiavano il suo nome, la sorreggevano e guidavano i suoi pugni verso il bersaglio. Ovviamente vinse la scommessa.
«Che cosa avevate scommesso?»
«Chi vince può chiedere qualsiasi cosa al perdente.»
«Qualsiasi cosa? Ma...»
«Funziona così nei vicoli. Se non hai le palle, non giochi.»
«Hai mai perso?»
Una volta. O forse più di una; perdeva spesso contro Vander ma suo padre chiedeva cose impossibili, tipo stare fuori dai guai, e non c’era modo di accontentarlo. Una volta perse contro un rigattiere del confine. Aveva la sua bottega sopra, alla luce del sole, quasi affacciata al canale, ma era chiaramente dei vicoli e trattava con la gente dei vicoli. Vander ci andò solo una volta, per Vandere un gioiello scheggiato, e portò Vi con lui.
Nonostante la bella posizione, il negozio era buio, polveroso e odorava di aria stantia, come se le finestre dai vetri opachi non venissero aperte mai. Un vero peccato, vista l’aria pulita che si poteva respirare fuori. Anche il proprietario era buio, polveroso e odorava di stantio. Un ometto calvo, ricoperto di pellicce male assortite, con il naso adunco e le dita inanellate. Aveva chiesto a Vander di lasciargli la ragazza per un pomeriggio: c’erano un sacco di scatole da spostare in magazzino e lui non era più giovane come una volta.
«Aiutami a finire in giornata e ti pagherò bene.»
Vi aveva guardato le casse accatastate sul retro della bottega e ne aveva saggiate un paio.
«Scommetto che riesco a finire per le cinque.»
Non voleva lanciare una sfida, lo aveva detto tra sé e sé. Il rigattiere invece l’aveva osservata con uno sguardo tutto del suo mestiere. Aveva fiutato un buon affare.
«Accetto la scommessa. Per le cinque.» Aveva scrollato le spalle e il sacchetto alla sua cintura aveva cantato moneta sonante. Lui lo aveva accarezzato appena, prima di aggiustarsi la pelliccia con studiata indifferenza. Sì, era stato proprio bravo.
«Andata.» Vi si era rimboccata le maniche e aveva sollevato casse come se ne andasse della sua vita.
Con un occhio teneva sotto controllo il sole, con l’altro dove metteva i piedi. Le scatole di legno pesavano molto, probabilmente c’era del metallo dentro, o della pietra. Dopo solo due dozzine di viaggi le braccia già le facevano male, ma non rallentò di un secondo.
Fu quando si permise di credere di farcela che le cose presero una brutta piega. Mancavano un paio d’ore e aveva già tolto di mezzo tutte le casse impilate ai piani alti della piramide, ne mancavano giusto una cinquantina. Ma quando fece per prenderne in braccio una, questa gli sfuggì di mano e per poco non cadde anche lei.
Era pesantissima.
Molto più di cinque minuti prima, quando l’aveva spostata con un calcio. Se ci avesse provato adesso sospettava che si sarebbe rotta il piede. Non capiva. Era la stessa cassa, nessuno l’aveva aperta o toccata.
Per portarla in magazzino impiegò il triplo del tempo delle precedenti. E così fu per tutte quelle a seguire. Quando finì, il sole era bello che tramontato e l’aria fresca della notte le gelava il sudore sulla pelle. I crampi alle gambe le impedivano di tenersi in piedi e dalla punta delle mani alle scapole era tutto un torpore.
Caitlyn ha finito il sangue secco da grattare e stupidamente si è messa a massaggiare le dita di Vi, come per scacciare quel torpore fantasma. «Che cosa era successo?» chiede, sinceramente curiosa.
«Il rigattiere me lo ha spiegato… dopo. Lì affianco c’era un magnete gigante attaccato a un montacarichi, che i pescatori di rottami utilizzavano per tirare fuori dall’acqua i relitti più pesanti. Lui aveva intenzione di usare quello per spostare le casse, prima che arrivassi, e ovviamente me lo ha tenuto nascosto una volta scommesso. Lo ha azionato alla fine per rendermi più difficile il lavoro.»
«Ha imbrogliato.» Riassume Caitlyn. Aveva aspettato di vedere se Vi ce la potesse effettivamente fare, e poi aveva tirato fuori il suo asso nella manica.
«è stato furbo. E io stupida, avrei dovuto controllare i dintorni.»
«Cosa ti ha chiesto per la scommessa?» Caitlyn immagina che si sia tenuto i suoi soldi.
«Ha voluto scopare con me.»
Per un attimo, è sinceramente confusa. Pensa davvero di aver sentito male. L’attimo dopo sta sperando, con tutte le sue forze, di aver sentito male.
Scatta a sedere come una molla. «Che cosa?»
Vi aggrotta le sopracciglia martoriate e stringe l’aria con le mani. «Qual è il tuo problema?»
«Quale-qual è il mio problema? Sei veramente andata a letto con quel tizio?»
La cosa stranamente non fa inorridire Vi quanto lo fa con lei. Caitlyn lo odia.
«Era il prezzo della scommessa.»
«Vi.» Vi. Una ragazzina. Vi che lavora sodo per la sua famiglia. Vi disposta a tutto per la sua famiglia. Caitlyn chiude tutto fuori, prima di vomitare. «Mi stai prendendo per il culo? Se è così, smettila subito.»
Vi si stacca da lei con la rapidità di un serpente che attacca. Si chiude in posizione di difesa.
«Avevo dimenticato quanto fossi pudica, pasticcino.» Dice. Ma, al di là delle ferite, il suo viso parla di una bestia in trappola, lo sguardo che si riserva a un nemico.
Caitlyn si sente come la prima volta, sbarre massicce a separarle, occhi gelidi nei suoi che gridano: “Sei troppo diversa, non puoi capire, voi non capirete mai.”
Priorità, Caitlyn. Le mani le prudono tanta è la voglia di imbracciare un fucile. La nausea è ancora in agguato, insieme alle implicazioni, alle immagini a cui non vuole pensare. Priorità. Vi.
«Scusami.» Di che diavolo si sta scusando? Priorità. «Ho esagerato. Solo…»
«Pudica.» Vi non si rilassa nemmeno un poco, ma almeno abbozza un sorriso e non sembra volerle sferrare un pugno in mezzo agli occhi.
Il silenzio tra di loro si riempie di tensione. Di chiederle «Continua a raccontare.» caitlyn non ci pensa proprio. Conta le macchie di sangue che sono cadute sulle lenzuola, una a una, e decide di aspettare Vi.
Vi che probabilmente si alzerà e fuggirà in ritirata verso la porta, se non direttamente dalla finestra. La lascerà andare questa volta? Beh, per come la vede lei, la situazione si può risolvere in due modi. Lasciare effettivamente che si allontani e si schiarisca le idee. O darle della codarda e scatenare una rissa in camera sua. Sua madre ne sarebbe deliziata.
«Era la mia prima volta.» A sorprenderla, Vi riprende parola. «è stata esattamente come te la immagini.»
Bello schifo, allora.
Caitlyn torna a stringerle una mano e sospira internamente, lieta, quando Vi ricambia la stretta.
Magari è ora di sistemare quelle ferite, anche se ormai si può fare ben poco.
Ancora una volta Vi la blocca e trascina indietro. Invece di cadere sul letto, finisce in grembo alla ragazza e due braccia risolute la circondano per la vita. Caitlyn è quasi più sorpresa di prima e penosamente consapevole di ogni respiro che le preme sulla schiena.
«Dolce… Pudica…» Blatera Vi, premendo il naso tra le sue scapole. Sente il principio di una risata nel suo tono.
«Ti hanno colpito alla testa più forte di quanto pensassi.» Si muove un po’ a disagio. La tentazione di lasciarsi completamente andare all’indietro è davvero grande.
Vi la ignora. «Credo di aver capito più di una cosa su di te, pasticcino. Facciamo una scommessa?»