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Missione: M2
Prompt: Consapevolezza
Titolo: Caregiver
Fandom: Originale
Rating: M
Warning: /
Note: Omegaverse
Michael era un convinto sostenitore della teoria “La conoscenza è l’arma migliore”. Non comprendeva affatto chi decideva spontaneamente di rimanere nell’ignoranza: non sapere era terrificante.
Quando a scuola avevano accennato per la prima volta a alpha, beta e omega, lui non ci aveva capito niente. La maestra Viola aveva letto due righe da un opuscolo e li aveva terrorizzati con ripercussioni immani se si fossero dimenticati di far firmare l’avviso ai genitori per il test del mese successivo. Era tornato a casa con la preoccupazione che cresceva ad ogni passo, temendo una malattia, o forse una maledizione degli avi, chissà che non avrebbero dovuto esiliarlo in un’isola deserta perché aveva il gene della sfiga di Madre Natura.
Così aveva subito chiesto alla mamma, alla nonna, alla lunga lista di parenti esperti che aveva a portata di mano - la fortuna di avere un intero ramo famigliare nel settore medico - e il giorno del test, mentre i suoi compagni di classe avevano solo vagamente idea di cosa dovessero fare e si stritolavano le dita in preda all’agitazione, lui sapeva con esattezza cosa lo aspettava, quali pieghe la sua vita avrebbe potuto prendere, pregi e difetti di ognuna di esse. Ed era il più tranquillo.
Sei anni dopo, con l’avvento del suo calore, le cose non erano cambiate. Si era informato su tutto con settimane d’anticipo, raccogliendo più dati possibili e scartando attentamente quelli pochi attendibili. Ovvero la maggior parte. Santa Madre, quante balle giravano su quell’argomento! Gli omega impazzivano, o venivano presi da dolori lancinanti, o aggredivano le persone per strada per farsi scopare!
Qualche giorno prima Mark Montreal, che probabilmente sapeva tanto degli omega quanto di igiene personale, si era detto invidioso di lui perché sarebbe diventato tanto sensibile da avere un orgasmo solo con il pensiero. Invece Amber Mc-qualcosa, quella di arti figurative, gli aveva confidato di essere molto preoccupata per la febbre e di aver fatto incetta di paracetamolo per un mese. Un mese. Michael aveva avuto pietà di lei, ma non era comunque riuscito a farle capire che no, non avrebbe avuto la febbre e, a prescindere, il calore non sarebbe durato più di quarantotto ore.
Non era preoccupato, non ne aveva motivo. Era solo la natura che faceva il suo corso. L’unica cosa che gli dava da pensare era se accettare o no l’offerta di sua madre di un’assistenza “esterna”.
Un’ottima agenzia specializzata in questi servizi per gli omega, a cui spesso anche il suo ospedale si rivolgeva per un aiuto ai casi di traumi e violenze, dove era necessaria una certa delicatezza e una bella dose di professionalità. Così l’aveva definita sua madre e lui si fidava, certo, la mamma non lo avrebbe mai messo in mani men che fidate. Però, era pur sempre il suo primo calore.
Una piccola parte di lui, e non tra le più carismatiche, lo considerava una cosa personale, intima. Un rituale di passaggio. La perdita dell’innocenza. Nessuno l’avrebbe più considerato un bambino.
Tirò fuori il biglietto da visita che gli aveva dato sua madre. Il nome dell’agenzia era stampato in un anonimo carattere da studio legale, così come anonimo era lo sfondo nebuloso della carta. L’unica concessione al frivolo erano due linee sottili sugli angoli e il più piccolo degli svolazzi.
Ecco il suo regalo a sé stesso per il suo primo calore: non dover organizzare niente, che tanto ci avrebbe pensato l’agenzia. Con buona pace dell’intimità.
§
Il calore arrivò con tre giorni di ritardo. L’agenzia fu molto paziente, ovviamente, gli aveva concesso una finestra di ben due settimane. La stizza era tutta sua. In quei tre giorni non aveva fatto altro che pensare a quello, attendendo con l'impazienza di un wedding planner che si ammazza di lavoro per far partire la cerimonia in orario e poi ad arrivare in ritardo sono gli sposi.
La mattina fatidica la sua famiglia se ne era accorta quasi prima di lui.
Ok, appena aperti gli occhi si era fatto una sega, ma quella era la normalità. L’alzabandiera mattutino non mancava quasi mai e di domenica, quando non doveva correre a scuola, poteva darsi piacere invece che farsela passare a furia di immaginari uccellini ingoiati da gatti, sbranati da cani, presi sotto da una macchina.
Era sceso in cucina per la colazione e tornato in camera per vestirsi. Sotto la doccia si era masturbato di nuovo e lì, il primo dubbio lo aveva colpito. Ma aveva ancora in mente il sogno fatto quella notte, ed era un sogno da oscar del porno, quindi ancora non era il caso di attivare l’allarme.
Sceso di nuovo al pianterreno per piazzarsi davanti la tv in salotto, aveva declinato ogni proposta di attività all’infuori del divano fino all’ora di pranzo. Stava comodo. Non aveva voglia di alzarsi. Poi si era eccitato guardando la pubblicità dei fazzoletti kleenex, immaginando che utilizzo avrebbe potuto farne. Si era eccitato strusciando il bacino sulla trama del divano, chinandosi oltre il bracciolo per recuperare il pastello di sua sorella. Sua madre gli aveva chiesto se voleva una ciambella per merenda e lui si era eccitato.
«Tesoro…»
Aveva chiamato l’agenzia.
Un’utilitaria era entrata nel loro vialetto meno di venti minuti dopo, fermandosi davanti alla saracinesca del garage. Michael era grato della loro velocità: con la valigia preparata in precedenza, aveva passato quell’attesa in piedi all’ingresso, agitandosi sulle proprie gambe, a fissare la parete intonacata con ostinazione, dato che aveva cominciato a vedere oggetti fallici in ogni figura su cui posasse lo sguardo.
Il trillo del cellulare gli notificò l’arrivo di un nuovo messaggio.
«Allora io vado, mamma.»
Sua madre aggiunse un paio di raccomandazioni di rito, sua sorella gli chiese di portarle un souvenir. Nella sua adorabile testolina di bambina di cinque anni, valigia equivaleva a vacanza. Michael non se l’era sentita di spiegarle cosa andava realmente a fare. Non per altri cinque anni almeno.
Salutò un’ultima volta e si chiuse il portone alle spalle. Vedendolo avvicinarsi all’auto, il guidatore scese per prendergli la valigia e metterla nel portabagagli. Alto, brizzolato, indossava una cravatta ma la teneva allentata sul collo. Si faceva presto ad aprire una camicia già slacciata per metà.
Michael per poco non diede una testata sullo sportello dell’auto. Di proposito. Non era il caso di pensare certe cose, doveva solo controllarsi fino all’arrivo. Peccato che i suoi pensieri scivolassero come anguille. Fuggivano dalla sua presa un attimo prima che potesse stringerli.
Lo scricchiolio della pelle dei sedili, quando si sedette, suonò come una promessa sconcia. La consistenza del cuoio sotto i polpastrelli gli faceva stringere le dita. All’interno dell’abitacolo aleggiava un odore fresco di agrumi. Sapeva che normalmente gli avrebbe ricordato l’estate, il sole, il nonno che spreme le arance a mano e fissa lo spremiagrumi automatico con aperto disprezzo, l’anticristo del sesso insomma. Ora l’unica immagine che quel profumo evocava erano limoni, tanti limoni, limoni ovunque, con chiunque, essere sbattuto sotto un albero di limoni…
«Fra quanto arriveremo?»
Poteva vedere il viso dell’autista attraverso lo specchietto retrovisore e pregò che rispondesse “presto”. Quello ricambiò lo sguardo, sorrise appena e riuscì a farlo sembrare più comprensivo che compassionevole. Rispose: «Presto. Dieci minuti, se non troveremo traffico.»
Meraviglioso. Non parlò più con l’autista, sforzandosi di escluderlo da ogni pensiero, e l’autista non parlò più con lui. Sapeva. Sapeva che sapeva. Entrambi sapevano. Il lavoro di quell’uomo era portare omega in calore dove avrebbero trovato sollievo e ignorare il fatto che in quei dieci minuti lui era l’unico soggetto su cui fantasticare.
Micheal fu genuinamente impressionato, per un istante. Il suo stoicismo era ammirevole. Magari era più facile quando l’omega in questione poteva essere tuo figlio.
§
«Signor Berry, da questa parte.»
Era la prima volta che lo chiamavano signore. Michael, sedici anni, tappo e mingherlino, era fortunato se non lo credevano uno studente delle scuole medie. Fu gratificante. Poi l’assistente si girò, offrendogli la vista del suo sedere fasciato in una gonna attillata, e tutto andò in malora.
Sospirò frustrato. Onestamente era già stanco di quel chiodo fisso. Sapeva che sarebbe stato come rivivere l’inizio della pubertà con la quantità di ormoni decuplicata, ma saperlo e sperimentarlo sulla propria pelle erano proprio due cose diverse. Era frustrato per non essersi ancora sfogato. Ed era frustrato per essere frustrato per non essersi ancora sfogato. Si sentiva come un violino troppo tirato e presto una delle corde si sarebbe spezzata.
Registrò appena il corridoio in cui stavano passando. Stava sperimentando una nuova tecnica: non soffermare lo sguardo su ciò che osservava, ma cambiare soggetto prima che la sua mente in iperventilazione ci vedesse qualche perversione. Così seppe che avevano preso l’ascensore per salire al secondo piano e attraversato un altro paio di corridoi, ma potevano anche trovarsi al palazzo ducale per quanto aveva fatto attenzione.
Una macchia fuori posto sulle altrimenti monotone pareti e porte laccate lo costrinsero a focalizzarsi su di essa. Ci fu poco da fare a quel punto: un bellissimo uomo gli veniva incontro e una misera occhiata era più che sufficiente per desiderare che si inginocchiasse ai suoi piedi.
«Oh, Clary.» L’uomo spostò lo sguardo dalla donna a Michael. «Il signor Berry?»
Non si capiva di che colore avesse gli occhi dietro le lenti colorate dalla montatura fine. Gli piaceva che portasse gli occhiali, insieme ai capelli sbarazzini gli davano un’aria da professore dissoluto.
Era la persona che si sarebbe presa cura di lui? Sì, per favore. Che fosse lui. Per favore.
Sì schiarì appena la gola. «Sì, sono io.»
Il professore distese le labbra in un sorriso. Michael non vedeva l’ora di sentire la rada barbetta solleticarlo mentre quelle lo lambivano. «Piacere, io sono Vincent. Sarò il suo caregiver per le prossime giornate.»
Il suo pene esultò. Quasi si mise a fare le fusa, l’infoiato.
Michael ricambiò il sorriso e portò con disinvoltura la valigia a coprirlo sul davanti.
Vincent la adocchiò e protese appena una mano. «Mi permette?» Fu ben attento a non sfiorargli le dita quando prese il manico del bagaglio, una piccola accortezza di cui Michael gli fu grato. Madre Natura sola sapeva cosa avrebbe scatenato in lui.
L’assistente Clary gli augurò un piacevole soggiorno e si congedò. Vincent lo invitò ad entrare nella camera 224.
Più che una camera, sarebbe corretto dire appartamento. Nonostante la stanza principale fosse quella da notte, con il letto a due piazze che torreggiava prepotentemente sul resto dei mobili, Michael notò la presenza di un angolo cucina, un piccolo terrazzo e, dietro una porta di vetro smerigliato, un bagno.
I colori erano quelli della quotidianità e quotidianità significava tinte pastello, vasi di bulbi fioriti o piccole piante grasse sulle superfici appena polverose e un paio di lava lamp per cui aveva un debole. E siccome le apprezzava, smise di guardarle non appena le bolle al loro interno assunsero forme falliche.
«Signor Berry,» Vincent aveva appoggiato la sua valigia ai piedi del letto. «Posso darle del tu? O preferisce continuare su questo tono?»
Onestamente, sentire un uomo sulla trentina chiamarlo signore e dargli del tu era strano, anche senza il presupposto che da lì a poco quell’uomo lo avrebbe visto nudo, magari toccato, magari scopato.
«Del tu, per carità. E spero non ti offendi se faccio altrettanto.»
Vincent approvò sorridendo e si spinse gli occhiali sul ponte del naso con un dito.
«Ci mancherebbe. Dunque, Michael.» Il suo nome sulla sua bocca gli provocò un brivido giù per la schiena. Lo mascherò magistralmente, o così gli piacque pensare. La pelle d’oca, poi, non si vedeva da quella distanza.
«Prima di cominciare, vorrei ripetere le regole di questo incontro, considerando che è la prima volta che hai a che fare sia con noi, sia con il calore.»
Annuì. Sapeva già tutto, aveva definito ogni dettaglio con l’agenzia giorni prima, ma apprezzò comunque l’iniziativa. La consapevolezza era l’arma migliore.
Il suo uccello gli mandò una stilettata per protesta, non molto a favore di quel temporeggiamento, ma lo ignorò.
«All’interno di questo alloggio e finché non metterai a rischio te stesso o me, puoi fare tutto ciò che vuoi e tutto ciò che ti dà sollievo. Puoi chiedermi ciò che vuoi; se mi è permesso farlo, lo farò. Sarà mio compito occuparmi dei tuoi bisogni, sia quelli legati al calore che non. Se qualcosa non ti piace o ti crea disagio, riferiscimelo e me ne occuperò subito.» Vincent fece una pausa per riprendere fiato. Si allungò per buttare un occhio su dei fogli appoggiati sul tavolo, di cui Michael si accorse per la prima volta. «Qui leggo che non hai allergie o intolleranze, né problemi fisici o di salute a cui fare attenzione.»
Vincent lo puntò con lo sguardo. Si aspettava una conferma. Annuì.
«Hai già avuto esperienze sessuali con altri partner.»
Occhi in cerca di conferma. Annuì due volte.
«Non hai specificato nessun kink in particolare ma sei favorevole alla sperimentazione e hai dato il consenso alla penetrazione.»
Annuì così concitatamente da mordersi la lingua. Una smorfia gli accartocciò il viso e seppe anche di essere arrossito. Non poteva farci niente, il ventre gli tirava tanto da farlo quasi piegare in due, e solo una piccola parte di quel grumo emotivo era imbarazzo.
«Vuoi aggiungere qualcos’altro? Hai qualche richiesta da farmi?»
“Scopami.” Per poco non gli uscì di bocca davvero. Lo sentì sulla punta della lingua e se la morse di nuovo. Un risolino isterico gli sfuggì tra i denti. Si portò le mani a coprirsi il viso, fino ad artigliarsi i capelli; tra le dita vedeva Victor emanare comprensione e sex-appeal a ondate alterne. Comprensione e sex-appeal. Che combinazione distruttiva.
«Scusami. Scusami, è solo…» Chiuse le fessure tra le dita per non doverlo più guardare.
«… è solo che io sto qui a parlare, mentre tu sei alle prese con il calore.» Vincent si staccò dal tavolo e abbandonò la zona cucina. «Va bene, non preoccuparti, è normale. Che ne dici se ti facciamo scaricare subito un paio di volte, così avrai un po’ di tregua?»
Gli venne talmente vicino da poter sentire il suo odore. Ammorbidente per capi delicati, shampoo alla mandorla, un’ombra di fumo di sigaretta, nessun profumo o dopobarba. Avrebbe potuto sciogliersi addosso a lui. Fece di meglio: si alzò sulle punte e lo baciò con le mani a circondargli la mandibola.
Voleva fare e fargli e farsi fare talmente tante cose da non sapere da dove cominciare. Vincent li fece girare e indietreggiò fino al letto. Michael si ritrovò a seguirlo senza averne memoria, improvvisamente steso sopra di lui su una trapunta spugnosa, a strusciarsi sulla sua gamba. Come… un animale.
Si tirò su a sedere di scatto. Impose alle sue mani di stringersi sulle cosce, le sue cosce, non quelle di Vincent. Che vergogna.
Prese un respiro profondo. Un altro. Vincent lo guardava perplesso ma senza osare muoversi. Prendere il terzo respiro senza aspirarlo direttamente dalla sua bocca fu estremamente difficile, ma si sentì fiero di sé stesso quando ci riuscì. Si slacciò i pantaloni e se li tolse, un po’ a fatica. Gli piacque lo sguardo ammirato di Vincent quando li piegò con cura, invece di gettarli semplicemente per terra. Si spogliò completamente.
«Vorrei…abbracciarti e… muovermi.» Bene così, non doveva sentirsi in imbarazzo. Lo pagava fior fior di quattrini ma non per questo non si sarebbe interessato al suo volere. «Su di te.»
Vincent sorrise e aprì braccia e gambe. «Vieni qui.»
§
Le voci che giravano sul calore erano terrificanti ed esagerate, sì, ma magari c’era un fondo di verità. Michael non fu in grado di venire con il solo pensiero, ma venne molte volte, ripetutamente, in svariati modi. E a un certo punto, una volta entrati in confidenza tanto da giocare, Vincent lo tenne in sospeso per venti minuti e bastarono un paio di carezze ben assessate per finirlo.
Non perse la memoria né si risvegliò quarantotto ore dopo senza ricordare cosa avevano fatto Solo che lo avevano fatto talmente tante volte che i ricordi si confondevano tra di loro, si scambiavano di posto e alla fine non avrebbe saputo dire se l’ordine era giusto. Non che avesse importanza, in fin dei conti.
La febbre? Nient’affatto, anzi: si sarebbe preso un raffreddore per lo stare troppo nudo, se Vincent non si fosse preoccupato metodicamente di coprirlo a ogni intervallo.
Solo su una cosa si trovò impreparato. Qualcosa di cui non aveva letto ne sentito da nessuna parte, che non aveva potuto immaginare o prepararsi.
«Non mi sento diverso.» Aveva commentato, raggomitolato su un fianco, mentre gli ultimi strascichi del calore si ritiravano e sapeva che era finita. Era esausto, assonnato, magari un po’ intontito dalle endorfine, ma per il resto era uguale alla settimana precedente. Non si sentiva un adulto.
Vincent, più stanco di lui ma che ancora resisteva al sonno, gli aveva indirizzato una muta domanda con lo sguardo, accasciato accanto a lui.
«Non lo so. Pensavo che mi sarei sentito… Non lo so.»
«Va bene. Non devi sapere tutto, o capire tutto, la prima volta.»
Poteva accettarlo.