COWT13

Feb. 23rd, 2023 01:29 pm
Settimana: 1
Missione:
 M1
Prompt:
 Un rifugio alla fine del mondo 
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: /
Note: werewolf (contesto)
 


Patate e mele avvelenate
 
Il campo estivo per licantropi era l’idea più becera e tremenda che a suo nonno fosse mai venuta in mente. Era inutile che si riempisse la bocca con parole come “solidarietà”, “famiglia” e “divertirsi insieme”, i campi estivi erano già seccanti per definizione. Aggiungerci pellicce, feromoni e territorialità era un disastro annunciato.
E a Camillo sarebbe andato pure bene, che andassero pure a trascorrere l’estate in mezzo ai boschi annusandosi tra di loro, lui aveva un campionato di Royal Quest da vincere. Peccato che la partecipazione non fosse facoltativa.
Erano giorni che sopportava il campeggio, gli insetti, le alzatacce e i giochi massacranti. Erano giorni che sopportava le prese in giro. In quella radura dimenticata da Dio, dove non c’era l’ombra di un ripetitore per miglia, si consumava l’estate più brutta della sua vita.
“Billy?” Chiamò attraverso il microfono. “Billy? Billy, rispondi maledizione, è un’emergenza.” 
Stava parlando attraverso un walkie-talkie. Un walkie-talkie, per la miseria, nel ventunesimo secolo. 
“Billy!” 
La trasmittente gracchiò. “Camillo?”
Il sollievo lo fece rallentare, ma l’odore pressante dei suoi inseguitori tornò a mettergli le ali ai piedi. 
“Sì! Sì, io, Camillo, è un’emergenza.” 
Erano vicini, maledettamente vicini. Non si erano ancora arresi, mentre lui doveva tenersi un fianco con la mano per continuare a camminare più o meno dritto.
“Dove sei?” 
“Al chiosco dietro la cucina. È successo qualcosa? Passo.”
Quando mai non succedeva qualcosa, quei giorni. La sua famiglia semplicemente si rifiutava di lasciarlo in pace. 
“Arrivo.” Disse solo e cambiò direzione. 
Passò davanti le griglie già in funzione, ignorando i saluti dei più impiccioni e sperando che il pensiero di una bella bistecca rosolata trattenesse i suoi inseguitori. 
Dovette arrestare temporaneamente la corsetta e nascondersi dietro a un gazebo, quando sua madre spuntò fuori dalla propria tenda. Non avrebbe potuto ignorare un suo saluto come con gli altri, non senza beccarsi una ramanzina. Appena la vide puntare le sue amiche, scattò fuori dal nascondiglio e verso la cucina da campo.
Il chiosco lì dietro non era niente più che un mucchio di ciocchi di legno accatastati a formare un tetto e due pareti. Di solito, ci andavano gli altri ragazzi a fumare. Camillo sapeva che Billy non aveva quel vizio, non si aspettava però di trovarlo a pelare patate con gli auricolari nelle orecchie e un cuscino di gomma memory sotto il sedere.
In effetti, ne fu così sorpreso da aprire la bocca a vuoto un paio di volte, non sapendo cosa commentare per primo.
Fu Billy il primo a parlare, alla fine. “Cam, cosa c’è che non va?”  
“Peli patate? Figo. Ti aiuto.”
Questa volta toccò al suo amico rimanere senza parole.
Camillo si sedette sulla chiazza d’erba più asciutta che riuscì a trovare e si guardò intorno alla ricerca di un altro coltello. Non ce n’erano. Ricordandosi che Billy ne teneva sempre uno in tasca, di quelli ripiegabili, gli infilò una mano nei pantaloni per prenderlo. 
“Cam?” Billy esprimeva un grado di preoccupazione allarmante di per sé. 
Camillo rischiò la punta di un dito nell’aprire quel dannato coltellino. E di nuovo una seconda volta, nell’afferrare un patata e cominciare a sbucciarla.
Si assicurò di spostare un po’ di bucce già scartate dalla sua parte, così come il tegame con gli ortaggi nudi. Quando infine i suoi inseguitori lo raggiunsero, sembrava quasi credibile.
“Mi dispiace ragazzi, non posso venire a giocare a palla avvelenata con voi. Vedete? Petra ci ha affidato il purè di stasera.”
Billy rischiò di mandare a monte la sua copertura, ridacchiando sotto i baffi.
 
 

COWT13

Feb. 23rd, 2023 12:18 pm
Settimana: 1
Missione:
 M1
Prompt: 
Un rifugio alla fine del mondo
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: /
Note: /


L’ultima stazione

Nessuno scendeva mai all’ultima stazione. La maggior parte della gente, in effetti, si fermava alla Stazione Centrale di Sogno, il vero, grande centro di quello strano mondo dove Leo era approdato metà vita prima. Qualcuno scendeva nei quartieri successivi. Una volta lasciata la città, però, era raro trovare ancora persone a bordo. 
Leo non era mai arrivato così lontano. Le poche volte che aveva preso il treno, lo aveva fatto per spostarsi dalla casa della padrona al mercato cittadino e viceversa. Non sapeva neanche come fosse fatto l’Oltremondo, al di fuori della sua capitale. 
Ora, invece, era l’unico passeggero della carrozza, in attesa di arrivare a un capolinea leggendario. 
Forse non esiste nessuna ultima stazione, si disse. Forse il treno continuerà semplicemente ad andare avanti, e io non scenderò più. Gli sarebbe andato bene. Gli piaceva il treno. Era luminoso, con tanti rivestimenti morbidi e appigli a cui poteva aggrapparsi. Se trovava un posticino in cui stare da solo, poi, poteva sedersi e sbirciare fuori dal finestrino.
C’erano dei campi coltivati, intorno alla città, con fattorie isolate qua e là. Scendevano dolcemente lungo le colline e lasciavano il passaggio libero ai binari di malavoglia, litigando fino all’ultimo centimetro di terra sicura. Leo avrebbe voluto sapere che cosa si coltivava. Come sarebbe stato lavorare la terra. Da lì non sembrava una brutta vita, sebbene gli avessero detto che i servi dei campi venivano trattati peggio di quelli a servizio nelle case nobili.
Il capotreno annunciò l’arrivo imminente.
Leo si sollevò sulle ginocchia, cercando di guardare avanti, l’ultima stazione. Il crepuscolo era quasi finito e il buio non permetteva di vedere molto lontano. Il treno fischiò e cominciò a rallentare. Una volta a botte comparve a circondare i binari; dietro di essa, su una piccola collina, una villa senza cancelli.
Leo accarezzò il velluto della seduta prima di mettersi in piedi. Deglutì. Era arrivato. 
Faticava a scendere dal treno, poiché non aveva la certezza che vi sarebbe risalito. La padrona non gli aveva dato indicazioni, se non quella che sarebbe rimasto a servizio in prestito per un mese. Poi aveva borbottato a proposito del prezzo per un buon servitore che era raddoppiato dall’ultima volta che aveva dovuto fare un simile acquisto. 
Metà città credeva che in quella villa vivesse un mostro. L’altra metà che fosse disabitata. La padrona non si era mai espressa in merito, ma Leo aveva sentito qualcuno dire una volta che ci vivesse il figlio di un essere umano. Un mezzosangue, lasciato lì a nutrirsi di ombre, dopo che un uomo si era perso nell’Oltremondo.
Deglutì. Quale che fosse la verità, non aveva scelta. Scese dunque dal treno e si fermò ad osservarlo ripartire. 
Il sole era appena tramontato e un sentiero di lampioni si accese per lui, dalla banchina alla villa. Il mare d’erba al di là del viottolo ondeggiava senza vento ed era facile immaginare i mostriciattoli più disparati nascosti lì in mezzo, affamati. Tuttavia, più si avvicinava alla casa, più questa gli appariva innocua. 
Non era recintata, né sorvegliata da animali da guardia. C’erano lampioni ad olio su ogni parete, accanto ad ogni finestra e porta e ai lati del porticciolo; la luce che emanavano era soffusa e balsamica per gli occhi. Arrivato abbastanza vicino, Leo poté sentire della musica uscire da una finestra semiaperta del piano superiore. Un violino, se non errava.
Come poteva un mostro saper suonare? Tutti i mostri che conosceva lui amavano lo sfarzo o la miseria, l’eccesso oppure l’ascetismo. Quel posto sembrava così pacifico. 
Leo sentì un piccolo bocciolo di speranza sbocciargli nel petto. Non era mai una buona cosa, ma non aveva ancora imparato a sigillare il proprio cuore. Bussò alla porta.
 

COWT13

Feb. 22nd, 2023 11:42 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt: 
14. Non mi importa di avere ragione se poi resto sempre da solo (Leo Gassmann – Terzo cuore)
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: /
Note: /


Il re è solo

C’erano tre grandi problemi nella vita di Fey al momento. Il primo era il Gatto Nero.
In ordine di gravità, in realtà, sarebbe dovuto essere il terzo, ma Fey sentiva il bisogno di spacchettarlo per primo. Nell’arco di tre settimane, cioè dalla sua conoscenza, era passato dall’odiarlo, a dovergli la vita, all’odiarlo visceralmente, ad ammirarlo per la sua indipendenza, all’odiarlo di nuovo e più forte di prima. Ora? Era piuttosto sicuro di odiarlo ancora, solo che, occasionalmente, magari quando metteva da parte l’ego e la strafottenza, voleva anche scoparselo.
Non poteva farci niente. Parte di lui lo ammirava e avrebbe voluto essere come lui. Ed era abbastanza sincero con sé stesso da ammettere che era carino. Se solo non fosse stato così… impossibile, Fey si sarebbe sentito meno in colpa verso sé stesso. 
Il secondo grande problema riguardava suo padre. Il Grande Imbecille, aveva deciso di chiamarlo, che poi era come lo chiamava il Gatto Nero. Un nome azzeccato.
Il Grande Imbecille voleva distruggere i Quartieri Bui, e con distruggerli intendeva togliere il velo di ombre e lasciare che si integrasse con il resto del mondo alla luce. Una follia. Non saremmo sopravvissuti, nessuno di noi. Niente del nostro mondo sarebbe rimasto intatto. 
E Fey glielo aveva detto, dio quanto ci aveva discusso. L’unica cosa che aveva ottenuto era venire diseredato.
Il che riconduce al terzo grande problema della sua vita: il Piccolo Imbecille, suo fratello. Ora, con suo padre si era aspettato di fallire: in venticinque anni di vita non lo aveva davvero ascoltato neanche una volta, se non per sentirsi dire che aveva ragione. Fey aveva portato avanti la sua crociata solo per poter dire, a giochi conclusi, che lui comunque ci aveva provato. 
Ma Roy? Roy avrebbe dovuto stare dalla sua parte. Sostenerlo e spronarlo come aveva sempre fatto. Quel piccolo bastardo che, di fronte alla prospettiva di diventare il primo erede delle ceneri, gli aveva voltato le spalle non era suo fratello. 
La porta della sua camera si aprì, nonostante avesse espressamente ordinato di non disturbarlo finché non fosse uscito di propria iniziativa. Era il Gatto Nero, ovviamente. Non fece in tempo ad arrabbiarsi, solo a studiare la sua espressione. 
Il Gatto Nero non gli nascondeva mai i propri pensieri impudenti e quelli di alora gli parlavano di una sconfitta cocente. 
“La consulta?” Chiese comunque, per conferma.
“Sono tutti contro di te.”
Bene, la sua lista di problemi andava allungandosi.
Fey si abbandonò sulla prima poltrona che trovò. Chiuse gli occhi.
“Ricordami chi sono i miei alleati.”
“Non hai alleati. A parte me, ovvio.” Sorrise. Era una delle poche persone a cui sorridere non donava affatto. Gli affilava il volto, lo rendeva tagliente, più pericoloso del solito.
“Questo la dice lunga su come siamo messi.”
“A me dice solo che non dovrò dividere il mio bottino con nessuno, quando vinceremo.” 
Il Gatto Nero aveva ragione. Fey avrebbe dovuto fare piazza pulita di tutti quei traditori, il che significava cambiare i vertici di ogni quartiere, se non proprio di rimodernare tutto l’assetto. Suo padre. Suo fratello. Nessuno sarebbe potuto rimanere. Quando avrebbero vinto…
“Ha senso vincere a queste condizioni?”
Il Gatto Nero alzò la testa incuriosito. Si era messo a studiare una delle sue scacchiere. 
Fey continuò. “Che senso ha evitare una catastrofe, se rimarremo soli comunque?” 
“Non è da te fare queste domande.” Vero. Chissà cosa gli era preso.
“Rispondi alla domanda.”
Il Gatto Nero prese una pedina dalla scacchiera. “Il re è solo, dovresti saperlo bene.” Gliela lanciò, appositamente lontano dalla seduta, così da doverlo obbligare ad allungarsi. Quando tornò composto, lui si era già avvicinato a un soffio dalla poltrona. “Tu sai cosa va fatto, al contrario di quei ridicoli ratti. È l’unico motivo per cui sono dalla tua parte.”
Si avvicinò ancora di più. Gli occhi gli brillavano sotto il cappuccio. “Non ti preoccupare. Finché proseguirai sulla mia strada, non sarai solo.”
Ripensandoci, Fey aveva due grandi problemi. Uno era composto da suo padre, suo fratello, la consulta e tutti gli idioti del loro mondo che correvano verso un sogno di luce, senza notare la catastrofe che si frapponeva tra di loro. Questo era il problema più gestibile.
L'altro era uno spirito oscuro, la più profonda delle ombre, portatore di sventure e maldicenze e mal di testa, che aveva deciso di appollaiarsi sul suo grembo. Dio solo sapeva cosa voleva o perché. Era imprevedibile, inaffidabile, allergico all'autorità e troppo presuntuoso per anche solo arrivare a capire il concetto di "portare rispetto". Però gli diceva cose come "Hai ragione tu" e "Non sei solo" e "Questo regno è tuo" e Fey quasi ci credeva. Poteva immaginarsi con la corona in testa, i Quartieri Bui ai suoi piedi, una nuova notte che cala e tutto è come dovrebbe essere. Un’ombra dietro al suo trono, che se ne assicura.

COWT13

Feb. 22nd, 2023 10:09 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt: 
20. Il cuore è un'armatura, ci salva ma si consuma (Mr. Rain – Supereroi)
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: /
Note: /


Non c’è cuore che non abbia mai sofferto

Lo scampanellio all’ingresso annunciò l’arrivo dell’ennesimo nuovo cliente della mattinata. Morgan era troppo indaffarato in quel momento per farci caso. Era solo al servizio al negozio, il maestro era uscito per degli acquisti dell’ultimo momento. C’erano almeno tre signore che curiosavano tra le vetrine, un vecchio lord tanto ignaro di essere circondato da strumenti delicati quanto sbadato e un mercante esperto di arti magiche, che cercava di strappargli uno sconto ad ogni costo.
No, non si accorse di chi fosse entrato per più di un’ora, non finché non lo ebbe di fronte al bancone, l’unico altro rimasto nel negozio.
“Signor Jenkins!” 
Il Signor Jenkins era bello e triste come sempre, avvolto in una giacca di broccato che su chiunque altro sarebbe risultata pacchiana, e invece su di lui gridava “costoso e ricercato”. Non un capello fuori posto, o un gioiello poco meno che splendente, fatta eccezione per il sorriso, una curva appena accennata su cui la malinconia scivolava volentieri.
“Mi dispiace avervi fatto aspettare tanto.” Morgan si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa da offrirgli per farsi perdonare. 
Il Signor Jenkins lo aveva aspettato per tutto quel tempo senza lamentarsi o indisporsi - una specie rara, tra i clienti - senza chiedere neanche una sedia, e non sembrava volergliene affatto. Non per niente era il suo cliente preferito.
Peccato che quella mattina non avesse avuto un momento neanche per fare il tè. Di offrirgli i biscotti induriti di tre giorni prima non se la sentiva proprio. Infine, non ebbe da porgergli che un sorriso contrito.
“Non darti pensiero, piccolo Morgan. Non ci si può proprio lamentare del servizio in questo posto, né di altro in verità.”
“Siete molto gentile, signore.” 
Morgan andò comunque a prendergli una sedia su cui accomodarsi, tra quelle sparse nel negozio. Ne spolverò la seduta con una mano e invitò l’uomo ad accomodarsi, prendendogli bastone e cappello. 
“Cosa posso fare per voi, quest’oggi?” Chiese, sistemando gli oggetti con attenzione da un lato del bancone.
“Vorrei il solito.” 
Oh. Certo. Morgan non se ne stupì, ne fu solo dispiaciuto. “Sì, signore.” Pigolò con voce sottile, per poi andare a prendere la boccetta.
Si diresse al grande armadio a parete che aveva finito di sistemare giusto la sera prima con le nuove scorte. Più di cento cassetti, contenenti qualsiasi scrupolo l’essere umano si fosse mai posto. O almeno, quelli che si era posto il maestro. 
Cercò la targhetta “Cor Armis”. Finse di non trovarla, quando sapeva benissimo che si trovava nella terza riga dall’alto, cinque posti da sinistra. Apriva quel cassetto una volta al mese, ormai da due anni, per un solo cliente. Temporeggiò perfino nel salire la scala.
Tornato con i piedi per terra, trattenne la fiala di cristallo in mano più del dovuto, con un pensiero sfilacciato in testa. Invece di metterlo in mano al signor Jenkins, come al solito, lo poggiò sul bancone.
“Altro, signore?”
Il signor Jenkins sollevò un sopracciglio biondo, sorpreso da quella deviazione della loro routine.
“Il maestro ha acquistato un nuovo metallo svela-verità, più duttile e malleabile. Ne ha fatto degli anelli stupendi.” Morgan corse a prenderli. 
Appoggiò sul bancone il cofanetto con i cerchi sobri e raffinati per gli uomini e ne indicò alcuni, sperando di risvegliare un guizzo di curiosità nell’uomo.
“Questo si intona al vostro vestito. Questi invece sono più semplici, ma si regolano da soli e possono essere indossati su ogni dito e con qualsiasi cosa.”
Il signor Jenkins annuì distrattamente, più concentrato su di lui che non sugli anelli, a dir la verità.
“Quale mi consiglieresti tu?” Lo assecondò.
Morgan li studiò con più attenzione di quando li aveva messi in vetrina. “Questo.” Sfilò un cerchio d’argento con tre piccoli smeraldi. “Credo… che vi starebbe molto bene.”
Il signor Jenkins si sfilò il guanto e gli porse la mano. 
Morgan dovette concentrarsi per non far tremare le proprie dita, trattenne persino il fiato. La pelle del signor Jenkins era morbida e calda, come se avesse appena finito di fare il bagno. 
Una volta che il cerchietto fu al suo posto, accanto ad un altro dalla forma di serpente, sollevò il viso trepidante di sapere cosa ne pensasse l’uomo. Lui, però, stava fissando la boccetta sul bancone. 
“Vorrei anche mostrarvi i nuovi carillon arrivati questa settimana, se me lo permettete.” Morgan lì indicò con foga, vicino alla cassa, quattro piccole scatole rotonde finemente decorate. “Sono state aggiunte le ultime canzoni delle corti e cambiano melodia a seconda dell’emozione più forte nella stanza.”
Ne afferrò una e la porse, già caricata, al signor Jenkins. Costui la guardò tra le sue mani, l'afferrò e la mise da parte. Poi, con somma sorpresa di Morgan, gli prese una mano nella sua. 
“Mio piccolo Morgan, dimmi cosa c’è che non va oggi. Perché ti comporti così?”
“Io… Io sto solo facendo il mio lavoro, signore.” 
Non riuscì a mantenere il suo sguardo. Non poteva credere che gli stesse tenendo la mano. Si chiese se poteva azzardarsi a stringerla. Sentì un calore sconosciuto irradiarsi da ogni punto di contatto e affondare nella pelle, nei muscoli e nelle ossa, trapassarlo da parte a parte. Era… strano.
Abbassò gli occhi. Un baluginio verde. Parlò con una tale facilità, da non rendersi conto di quello che stava dicendo. “Io mi chiedevo perché un uomo affascinante e gentile come voi si nega la possibilità di innamorarsi.”
Arrossì all’istante. Una parte di lui avrebbe voluto sfilare la mano da quella del signor Jenkins per coprirsi il viso, mortificato da tanta impudenza. Una parte più grande era consapevole che non avrebbe sciolto lui la presa per primo neanche se fosse scoppiato un incendio.
Il signor Jenkins piegò leggermente la testa. C’erano molte emozioni sul suo viso e Morgan si sorprese nel vedere che solo in minor parte erano negative. 
Si scusò per quel piccolo tranello con una carezza del pollice. “Oh, piccolo Morgan. Ti auguro di non soffrire mai per amore, non lo meriteresti e non c’è niente di più doloroso per l’animo.”
“... È quello che è capitato a voi? Per questo non volete innamorarvi più?”
Il signor Jenkins annuì. 
E Morgan, prima che potesse mordersi la lingua o tapparsi la bocca in qualunque modo, disse: “Per un uomo come voi io soffrirei. Forse lo sto già facendo.”
 

COWT13

Feb. 22nd, 2023 06:47 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt: 
08. Per me le cose sono due: lacrime mie o lacrime tue (Elodie – Due)
Fandom: Originale
Rating: G
Warning: SoulmateAU
Note: SoulmateAU: quando uno piange, così fa anche l'altro a prescindere dalla situazione in cui si trova


Perché piangi?

“Montero, perché piange?”
Tutta la classe si voltò a guardarlo. Jonathan ci mise qualche secondo a collegare un senso alle parole della professoressa, complice quella ventina d’occhi spalancati. No, non c’era una simile citazione nelle Metamorfosi di Ovidio, la Gatti si stava davvero rivolgendo a lui.
“Come dice?” 
La ragazza nel banco davanti al suo, pure avvitata come un bullone, si indicò le palle da biliardo che stavano per caderle dalla faccia con un dito. Jonathan si toccò allora la sua. Sotto i polpastrelli vi trovò un fiume di lacrime.
Si osservò le dita. Toccò di nuovo le guance. Controllò ancora. Dio, era successo di nuovo.
“Prof, devo andare un attimo in bagno.”
Si alzò senza aspettare risposta.
“Aspetta, Montero, tutto b…?”
Chiuse la porta dietro di sé prima che potesse finire la domanda e si avviò verso le scale. 
Sentiva le guance, oltre che umide, cominciare ad accaldarsi. Cosa avrebbero pensato i suoi compagni? Lui non era uno che piangeva in classe. Sperava non fossero così idioti da pensare che si fosse commosso per qualche pippa mentale greca. Magari qualche suo amico più stretto avrebbe capito e salvato la sua reputazione.
Salì due rampe di scale, prima di fermarsi a ragionare seriamente su quello che stava facendo. Non poteva certo piombare in classe di Andy senza una valida scusa, qualsiasi fosse la situazione attuale. Dubitava che Andy stesso fosse rimasto in aula. 
Imprecando sottovoce, fece dietro-front e scese le scale fino al piano terra.
“Dove vai, Montero?” Gridò il bidello dalla sua scrivania in fondo al corridoio, dalla quale si alzava solo in caso di terremoto, incendio o passaggio nefasto del preside.
“In bagno!” Nessuno che si facesse gli affari propri in quella scuola. 
Si infilò alla spicciolata nella toilette maschile. Nessuno in vista. Nessun rumore di singhiozzi. Nessun cubicolo occupato.
Jonathan strappò qualche pezzo di carta riciclata dal sostegno per tamponarsi il viso. La fiumana non accennava ad arrestarsi e intanto Andy non si trovava.
Mentre usciva e pensava a dove poteva essersi andato a cacciare, il cellulare gli vibrò in tasca. Ma certo! Perché non ci aveva pensato prima? Poteva chiamarlo.
Non perse tempo a guardare chi gli aveva messaggiato e aprì immediatamente la rubrica. Selezionato il numero giusto, non dovette attendere che una manciata di secondi.
“Jon” Il suo nome uscì dall’auricolare una lettera spezzata dopo l’altra. Seguirono un altro paio di singhiozzi.
“Dove sei? No, aspetta-Stai bene?” Udito un mugolio d’assenso, non proprio credibile ma utile a escludere le possibilità più serie, ripetè: “Dove sei?”
“Aula polifunzionale, al primo piano.”
A due passi dalla sua classe, che ironia. Jonathan tornò su di corsa, grattandosi via le lacrime dagli occhi che gli impedivano di vedere i gradini. 
L’aula polifunzionale era in teoria uno spazio tecnico a disposizione di tutte le classi, all’occorrenza un magazzino, all’atto pratico ignorata da tutti. Un ottimo posto, comunque, dove lasciare il cellulare in carica o nascondersi a pomiciare. O a piangere.
“Andy?” Chiamò, appena entrato. Le luci erano spente. 
“Qui.”
Strizzò gli occhi verso l’angolo opposto all’entrata, verso gli armadietti in fondo all’aula. Furono i singhiozzi a guidarlo, e il rumore di strappi. 
Trovò Andy sedere a terra, a sua volta il lacrime ovviamente, circondato da fogli strappati o appallottolati. Si chinò sulle ginocchia, per osservare meglio. Il suo ragazzo aveva lo strano sfogo di fare a pezzetti le cose per calmarsi. Quelli a terra sembravano comuni appunti di matematica, dubitava fossero il vero motivo della crisi; piuttosto la prima cosa su cui era riuscito a mettere mano lì dentro.
Andy era rosso in viso perfino in penombra e tratteneva il fiato a ogni respiro per cercare di calmarsi. Lo guardava mordendosi le labbra.
“Ehi, piccoletto.” Jonathan si sedette accanto a lui. “Cosa è successo questa volta?” Allungò le braccia per circondarlo e prese ad accarezzargli il petto con una mano in un movimento circolare, sperando di dargli così un po’ di sollievo.
Andy lasciò andare un sospiro, un singhiozzo e un sorriso, tutto insieme. Venne fuori davvero male. “Mi fai sembrare un piagnone di prima categoria.”
“E non lo sei?”
Un altro sorriso e un altro singhiozzo. Scherzavano sempre su quanto Andy avesse la lacrima facile, che fosse di rabbia, frustrazione, gioia o dolore. Piangersi addosso? Mai. Quel piccoletto non riusciva a stare fermo un secondo, soprattutto di fronte alle difficoltà. Però la lacrima ci scappava sempre.
Andy strinse la mano sul suo petto e contemporaneamente portò l’altra ad asciugare qualcuna delle sue, di lacrime. 
“Devi odiarmi per tutte le figuracce che ti faccio fare.” 
“Non essere ridicolo.” Come se avesse mai potuto odiarlo per quelle seccature, quando c’era così tanto altro che gli faceva provare.
Jonathan gli fece seppellire il viso nell’incavo nel suo collo e prese a massaggiargli la schiena. Sobbalzava ancora come un sismografo, oltre che sparare stronzate.
“Me lo dici dopo cosa è successo. Di cosa hai voglia ora, mh? Vuoi fare un giro? Se hai fame posso andare a prenderti qualcosa da mangiare alle macchinette. Oppure possiamo, sai…” Gli diede due baci veloci sulla tempia. “Finché non ti calmi.”
I singhiozzi si acquietarono appena. “Uhm, la terza.” 
Jonathan ci avrebbe scommesso. Gli diede altri baci a fior di pelle, avvicinandosi più che potè alla bocca, finché Andy non fu costretto a staccarsi e tornare a guardarlo. 
“Dai… Basta.” Gli disse dolcemente, asciugandogli sommariamente il viso con una manica. Lo premiò con un bacio come si deve, prima bussando per poi entrare. 
Sapeva di lacrime, quelle di Andy, che poi erano anche le sue.
 

COWT13

Feb. 22nd, 2023 06:34 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt:
09. Faccio fatica a smettere di suonare quando la musica è finita (Gianluca Grignani – Quando ti manca il fiato)
Fandom: Originale
Rating: T
Warning: /
Note: /


Questione di mancanze

Ailo amava vantarsi del fatto che avesse avuto più amanti lui, nell’arco della sua finora breve vita, della maggior parte degli uomini con il doppio della sua età. Erika diceva che era il vanto di una sgualdrina, ma Erika era una frigida bacchettona decrepita racchiusa nel corpo di una diciottenne, e per questo le sue opinioni in merito valevano meno del rame bruciato.
Ovviamente, teneva annotazioni su tutti loro. Un gioco, un altro vezzo per il suo ego, niente di serio, però un “libro mastro” esisteva e Ailo vi scriveva ormai con costanza nuovi nomi, nuovi particolari e soprattutto cosa valeva ripetere e con chi. E la lista parlava chiaro: il Viandante era il migliore, sotto quasi ogni categoria.
Era esperto, accorto, travolgente. Curioso e aperto a sperimentazioni. Bello da guardare e piacevolmente erudito ed eloquente, tanto da poterci intrattenere una conversazione decente. 
Non straparlava di sé. Non godeva del proprio riflesso nello specchio. Non si imponeva a proprio piacimento nella sua vita - Cose che, a pensarci bene, Ailo invece faceva; ma non aveva mai sentito il Viandante lamentarsi, quindi…
Ero così meravigliosamente soddisfacente, che Ailo non sentiva mai il bisogno di cercare altri quando lui era in città.
Con le ultime forze che gli restavano, battè insistentemente una mano sulla sua spalla nuda. “Spostati, mi fai caldo.”
In quel momento ce lo aveva addosso, nudo e sudato, e mai avrebbe pensato di chiedergli di allontanarsi in tali costumi, ma faticava a riempirsi i polmoni d’aria, tanto era l’ansimare. 
“Perdonami.” Un sorriso leggero. Un bacio all’angolo della bocca. Il Viandante si affrettò poi a rotolare lontano dal letto.
Visto quanto era attento ai suoi bisogni e piaceri, strano che gli avesse gravato così addosso da principio, Ailo doveva averlo proprio sfinito questa volta. La cosa lo riempiva d’orgoglio come poche altre. Se non fosse stato un relitto appagato a sua volta, starebbe facendo i salti di gioia per la stanza.
Il Viandante tornò con un panno di lino umido per la sua faccia, uno per il suo petto arrossato e uno per il macello che c’era tra le sue gambe. Ailo si prese qualche minuto per godere di quella freschezza e dei postumi d’ebrezza ancora in circolo. Aspettò di tornare a respirare normalmente e che le gambe smettessero di tremare. Poi, sganciò la bomba.
“Rimani qui, domani. Non partire.”
Le mani che si erano mosse fino ad allora delicate sulla sua pelle si fermarono. Il Viandante si liberò della pezza che aveva tra le mani. Gli tolse di dosso anche quella, ormai tiepida, che si alzava al ritmo del suo respiro. Quando afferrò l’ultima, Ailo sentì l’infantile bisogno di aggrapparcisi e trattenerla, come faceva da bambino alle coperte ogni mattina. 
La luce soave delle candele illuminava appena il soffitto, mentre sul viso dell’uomo aveva un effetto quasi magico. Si adagiava sulle linee degli zigomi e delle labbra, dipingendole di colori più caldi del solito, Faceva splendere i suoi occhi di giada di una tristezza regale.
“Non posso, lo sai.”
Quella crudele bugia gli strinse la gola in una morsa. “Non vuoi”.
Il Viandante scosse il capo. “Io voglio stare con te, lo voglio moltissimo.”
“Non abbastanza da rimanere.” Ailo si sforzò di inumidire gli occhi. Non fu un grande sforzo. “Rimani. Stai con me. Ho bisogno che tu stia con me. Vederti partire ogni volta mi distrugge. Per giorni cammino per le mie stanze, o sulla spiaggia, e ti chiamo, e mi volto aspettandomi che tu sia lì a un passo da me, ma non ci sei.”
Gli circondò il viso con le mani, protendendosi verso di lui. Abbassò la voce nel tono più intimo di cui fosse capace. “Di notte, mi tocco sognando che sia tu a farlo. Solo tu, non ho mai sognato nessun altro.”
Stava esagerando? Era una recita troppo struggente per qualcuno che lo conosceva così bene? 
La verità era che Ailo non camminava né si disperava, quelle cose non facevano proprio per lui. Salutava quell’uomo enigmatico dal porto, con il suo vestito migliore e un bacio che doveva bastare mesi. Una settimana dopo, era a scopare qualcun altro.
Capitava, però, che confondesse mani di altri, nella sua mente, con un paio ben preciso. Bastava chiudere gli occhi, e il gioco era fatto. E che delusione quando li riapriva ed era tutto sbagliato, l’uomo con lui era sbagliato.
Capitava che guardasse una lista di nomi, note, appunti, e accanto all’ego spuntasse l’insoddisfazione e una certa qual rabbia, nostalgia e una punta di determinazione. Lo voleva. Tantissimo. Soprattutto, lo voleva sinceramente e sperava che quello gli arrivasse più forte delle bugie.
Il Viandante taceva, osservando e ascoltando, accarezzandogli delicatamente le punte dei capelli. Il suo era imperscrutabile come quello delle statue, sereno e costruito. 
“Ti voglio.” Riprese Ailo, con più durezza. Nella sua mente, quando aveva immaginato la scena, l’uomo aveva ceduto a quel punto. Non stava andando. Una strana foga gli attanagliò le viscere. “Per giorni, anche dopo che te ne vai. Non smetto mai di volerti, in pratica, hai idea di quanto sia frustrante?”
Il volto della statua si incrinò per liberare uno sbuffò divertito. “Sì, so cosa si prova.” Rispose il Viandante.
 

COWT13

Feb. 22nd, 2023 04:57 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt: 
01. Vite frammentate senza verità (Anna Oxa – Sali (Canto dell'anima)
Fandom: Originale
Rating: T
Warning: /
Note: presenza di flashback


Fiori e ombre


“Quindi, ricapitolando: prima del fatto, non hai mai incontrato Ryan Wellby, né sapevi chi fosse.”

Lessi il nome sulla carta d’identità, pulendo via le tracce di sangue con il pollice. “Ryan Wellby? Che razza di nome!”
Risi sotto i baffi, gustandomi l’effetto che il mio sogghignare aveva ancora su un corpo martoriato, esausto, pronto a cedere. Era davvero ridicolo.
Dov’era finita tutta la sua baldanza? Quell’orribile sorriso strafottente che non mancava mai di rifilarmi? Le battutine scontate? Beh, difficile parlare con un pugno di ombre affamate che ti scivola giù per la gola.
“Ryan Wellby… Ryan Wellby…” 
Quasi cinquant’anni, diceva il suo documento. Sposato. Assicurato. Iscritto a una lista elettorale. 
“Questo è davvero deludente.” Gettai la carta da una parte. “Sai, Ryan, quasi mi piacevi, prima.”
La carcassa a terra emise un suono strozzato, graffiante, con quello che doveva essere rimasto delle sue corde vocali. Avrei giurato che mi stesse guardando male, se i suoi occhi non fossero quasi del tutto bruciati ormai.
“Va bene, questa è una stronzata, non mi piacevi neanche prima. Mi stavi proprio antipatico. Ma ti rispettavo, in un certo senso.”
Ai bordi del mio campo visivo, le ombre sulle pareti del vicolo si mossero inquiete, strisciando le une sulle altre. La luce dell’unico lampione tremolò visibilmente. Erano stanche di aspettare.
“Ti eri fatto un nome nei Quartieri Bui. Non è da tutti.”
Feci un passo indietro, poi un altro. I rumori della strada alle mie spalle si facevano meno ovattati man mano che camminavo. 
Un peccato, che non potessi assistere alla fine. 
“Ci sarà un po’ di confusione. Sarà difficile rimpiazzarti.”
Pazienza, in ogni caso il risultato della partita non cambiava.
“Ryan Wellby, invece, può morire qui.”
Con un ultimo crepitio, il lampione si spense. Non vidi più niente.

Annuisco. “No, signore. Mai visto prima in vita mia.” 
Il poliziotto sembra più annoiato che scocciato dalla mancanza di testimoni. Non è parso sorpreso neanche la prima volta che mi ha posto quella domanda, d’altronde. Gli è bastata una sola occhiata ai jeans strappati, la felpa oversize e le sneakers con i lacci sciolti, per classificarmi come teppistello da sala giochi. Un’altra alle cuffiette appese al collo, alle occhiaie e alle palpebre stanche, per stabilire che era più probabile che il carlino ansimante affacciato al terrazzo sopra di noi si fosse accorto di qualcosa di strano, piuttosto che io.
Guarda il taccuino in una mano. Non ho idea di cosa ci stia leggendo, dato che non ha ancora scritto una parola. Torna a guardare me.
“E non eri neanche a conoscenza del suo alter-ego-nell’ombra, Pelle e Ossa.”

“Pelle e Ossa è morto.”
Il silenzio assoluto calò sulla consulta. Stavano facendo a gara a chi ha la faccia più sbigottita. Tranne Dalia, lei sbiancò talmente tanto da rendere lecito il pensiero che potesse svenire. La sua paura aveva un odore fantastico.
“Nei sei sicuro, Gatto Nero?” Era chiaro che il Gufo pensava di essere l’unico ad avere fonti attendibili tra di loro. O così, o doveva credermi davvero stupido a gettare una bomba del genere tra i presenti senza essere certo delle mie parole.
Non lo degnai di una parola, e fu una risposta sufficiente.
“Come è possibile?” Chiese il Rigattiere, accarezzandosi la lunga barba unta. “Come è potuto succedere?” 
“Non siamo immortali." 
Il silenzio calò una seconda volta. 
“No, certo,” Concordò riprendendo parola il Rigattiere “invecchiamo e ci ammaliamo. Passiamo il testimone, quando l’ora è giunta.”
Tutti borbottarono in assenso.
“Ma…”
“Ma Pelle e Ossa è stato ammazzato da qualcun altro, vero?”
Sorrisi al Gufo. Fu più forte di me. “Esatto.”
“No!” Il Rigattiere scattò su, strappandosi più di un pelo rimasto allacciato tra le dita. “Non… Pelle e Ossa! Il signore delle Catacombe! Non è facile uccidere uno della consulta; con un una cinquantina di uomini-”
“Chi è stato?” Urlò Dalia, inciampando sull’orlo del proprio vestito per l’enfasi. “Esigo sapere-”
“E ora chi prenderà il suo posto? Le Catacombe-”
“I suoi uomini cercheranno-”
“Dobbiamo tutelarci anche noi, qualsiasi cosa sia successa-”
La consulta prese a parlarsi sopra gli uni sugli altri, tutti che volevano esprimere il proprio sbalordimento, tutti che volevano salvaguardare i propri interessi. Il Gufo continuava a fissarmi, più sorridevo e più lui si incupiva. Dalia occhieggiava la porta sempre più spesso.
“Io so chi è stato.” Dissi, prima che qualcuno potesse davvero svignarsela. Quelle zecche dovevano capire con cosa avevano a che fare. “Il fantasma dei Quartieri Bui è tornato: è stato Non-ti-scordar-di-me.”

“Non ho mai messo piede nei Quartieri Bui, glielo giuro, la mamma me lo proibisce sempre.” 
Metto su il muso, come se ce l’avessi ora davanti una mamma che proibisce di fare cose. Un momento dopo, fingo uno sbadiglio e torno a guardare il poliziotto.
“Uhm, bene…” Lo becco nel tentativo di evitare di sbadigliare a sua volta. “E che mi sai dire di Non-ti-scordar-di-me?”

“Ricordi quello che ti dissi la prima volta che ti lasciai nel mondo degli umani?”
“Di non scordarmi di te. Che era tutto reale.” Fey non capì dove volevo arrivare, non subito.
Vidi la consapevolezza raggiungerlo piano piano. Prima sottoforma di dubbio, gli fece aggrottare la fronte e incupire gli occhi. Man a mano che collegava i puntini, le rughe sul viso si spianavano, il colore lo abbandonava e gli occhi si facevano più grandi. Il modo in cui le labbra gli si schiusero mi parlò di un orrore paralizzante. 
Dio, quelle labbra. Non vedevo l’ora di divorarle. 
“Non può essere…”
“Te l’ho detto: porterò fiori sulla tomba dei tuoi nemici.”

“I fiorellini? La nonna li raccoglie sempre al parco, dice che ci si possono fare le marmellate.” Alzo le spalle, scoccando all’uomo in divisa uno sguardo imbarazzato. “La nonna è buona, ma ha una certa età e crede che i fiori si mangino.”
Il poliziotto sospira, ha evidentemente raggiunto una conclusione: sono una perdita di tempo.
“Ok ragazzino, puoi andare. Riga dritto, mi raccomando.”
Scatto via. “Certo, agente! Sempre dritti, senza esitare.”
 

COWT13

Feb. 22nd, 2023 03:12 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt: 
18. Siamo i soli svegli in tutto l'universo (Marco Mengoni – Due vite)
Fandom: Originale
Rating: T
Warning: /
Note: /

I cuori inquieti non dormono

La notte scende rapidamente sull’Oltremondo. La tiepida luce del giorno non è molto congeniale ai suoi abitanti, non come le ombre che nascondono mondi e intrighi. C’è qualcosa di rassicurante nel mistero, una certa speranza che non appartiene alla verità, limpida e spietata.
La notte scende rapidamente ma non resta immutata fino al mattino. C’è la sera, quando le strade si riempiono di tante luminarie da fare concorrenza alle stelle in cielo e la gente brulica per le strade come formiche operose. E c’è la vera notte, il buio più intenso, prima dell’alba. I commerci si interrompono, le feste si concludono e la quiete si impossessa della città. Perché le ombre che si muovono in quelle ore sono molto più profonde e oscure, e nessuno dovrebbe sondarle.
Il Gatto Nero sa di essere uno dei pochi a potersi permettere di tenere gli occhi aperti fino al nuovo giorno. A volte lo fa per il solo autocompiacimento, a volte per motivi un po’ più leciti - per quanto possano essere leciti gli intenti criminali.
Quella notte deve assicurarsi che nessun Incubo entri in casa. Dubita già abbastanza della sanità mentale di metà dei suoi ospiti, gestirli alle prese con le allucinazioni della Zizzania? Non è sicuro che non finirebbe per ucciderne qualcuno. Fatto che, suo malgrado, è necessario evitare.
Per cui vigila, appollaiato sul comignolo del camino spento, ombra tra le ombre che giocano a chi pare la più minacciosa.
Si sforza di non far vagare lo sguardo più in là delle strade che circondano la casa, poiché non lo riguarda ciò che capita agli sciagurati che bazzicano i vicoli prima dell’alba. Le luci della Giostra Insanguinata vacillano ogni tanto ai margini del suo campo visivo, l’Albero degli Impiccati si riempie di foglie man a mano che i minuti passano. Non li guarda. La sua attenzione è per i vicoli scuri e gli insetti ancor più scuri che strisciano fin quasi al marciapiede. 
Si muove appena, sgranchisce le spalle. Gli insetti scivolano via.
Poi, una sfumatura di colore. Sul graticcio di glicine rinsecchito che copre parte del muro a nord della casa, e si muove anche. Sbiadita, male illuminata, ma nel buio della vera notte sembra abbiano acceso un faro nella nebbia.
Il Gatto Nero non crede ai suoi occhi. Riconosce quella tunica madreperla, un fallimentare tentativo di sfumare la sciatteria della zazzera paglierina del suo proprietario. Quell’idiota di Fey sta scalando la parete, direzione tetto. 
Sotto di lui, le ombre si ammucchiano estasiate, fameliche. Sua altezza l’imbecillità manca un gradino con il piede destro e si fa anche sfuggire un rantolo. Gli Incubi vanno in visibilio.
Il Gatto Nero è costretto a scattare lontano dal suo camino, sopra la fine del graticcio. La sua presenza è ancora sufficiente per frenare gli animi delle ombre, grazie al cielo. Quando lo scalatore è a meno di mezzo metro da lui, parla: “È il momento peggiore per una passeggiatina, vossignoria."
E per poco il ragazzo non cade giù dalla sorpresa.
Il Gatto Nero lo vede distintamente sobbalzare, le dita che perdono la presa e fortunatamente la recuperano subito. Le ombre ruggiscono e anche qualcosa dentro di lui ruggisce, un embrione di catrame ringhia “Buttalo giù”.
Fey lo guarda con gli occhi spalancati e il respiro pesante. “Tu!” La voce gli trilla quanto un campanello.
“Io. Chi altri?”
“Cosa ci fai quassù?” 
“Potrei farti la stessa domanda, principino.”
Sua altezzosità storce il viso nella smorfia che è la sua espressione standard. Dato che non sembra più in procinto di cadere, però, il Gatto Nero si fa indietro e torna verso la sua postazione. Forse delusa dal non aver ricevuto aiuto per issarsi sul tetto, la smorfia reale si accentua.
Con un’ultima spinta e qualche rotolamento, sono in due lassù.
Non dovrebbe essere sveglio, è il pensiero che gli solletica la mente. E non c’è niente di più vero. Fey è… accecante. Perfino di giorno, con quel nido d’uccello al posto dei capelli, il gesticolare affettato e il battito del cuore come un colibrì. 
Giurerebbe che ogni Incubo della città lo stia guardando.
Che diamine ci fa sveglio lassù?
“I gatti non dormono la notte?” Il signorino a quanto pare si fa più o meno la stessa domanda. Spolverandosi i pantaloni, lo guarda in attesa di una risposta.
“Nono sono un gatto. Sono il Gatto Nero.” La più scura delle ombre, ricorda a sé stesso. “La notte è il mio regno.”
“Pensavo lo fossero i morbidi cuscini davanti al camino.” 
Lo fulmina con lo sguardo, piccato. “Anche.” 
Vorrebbe rifilargli una rispostaccia delle sue, come al solito. E il tuo regno dov’è andato a finire? ad esempio, oppure Già ti chiamano Corona Spezzata, ma c’è ancora un pensiero a frullargli in testa: Non dovrebbe essere sveglio.
Non dovrebbe essere sveglio.
Gli fa segno di avvicinarsi. Più vicino, più vicino, finché non vince la sua naturale reticenza e non lo ha a portata di carezza.
Non dovrebbe essere sveglio.
“È il momento peggiore per una passeggiatina, vossignoria." Ripete.
La luce negli occhi di Corona Spezzata si accartoccia su sé stessa. Si muove a disagio, cerca di nascondersi, ma deve ancora nascere nell’Oltremondo qualcosa in grado di sfuggire allo sguardo del Gatto Nero.
“Non riesco a dormire.” Gli confida dopo qualche momento di silenzioso pensare. Succede qualcosa di strano alla sua smorfia: il viso si spiana come una distesa di sabbia accarezzata dal vento. Poi gli occhi sono più aperti, più lucidi. La fessura tra le labbra si fa più accentuata. E quel volto gli parla improvvisamente di fiducia; neonata, fragile e tremolante, inconcepibile durante la vera notte.
Le ombre si zittiscono. Il panico lo attanaglia.
“E allora sforzati, vossignoria.” Sdrammatizza. La voce gli esce strozzata. Riprova. “O devo venir giù a cantarti la ninna nanna?" Meglio. 
L’idiozia fatta principe ha l’aria oltraggiata ora. Non c’è più traccia della pazzia di prima, per fortuna. Fa per parlare, opporsi, insultarlo probabilmente, ma il Gatto Nero è più veloce: spintarella dopo spintarella, lo riconduce al graticcio, incassando stoicamente le sue proteste. 
“Poche lagne. Passeggia nella tua stanza se proprio ci tieni.” Non dovrebbe proprio essere sveglio. “Com’è che dite voi umani? Conta le pecore, conducile all’ovile.”
“Non sono un umano!”
“E allora conta i ratti, ma guai a te se li fai entrare!”
 

COWT13

Feb. 22nd, 2023 03:01 pm
Settimana: 1
Missione:
 M2
Prompt: 
05. Ogni tanto c'è un altro che sfiora i tuoi sensi (Colla Zio – Non mi va)
Fandom: Originale
Rating: M
Warning: /
Note: /


Bellezza d’inchiostro

Bergen sentiva il ricordo del suo principe d’argento sfumare sempre più che affondava tra le cosce del ragazzo sotto di lui. Non gliene faceva una colpa, né rimproverava sé stesso. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima. Lo scorrere implacabile del tempo semplicemente giocava con la sua mente fallace e riempiva di voglie irrefrenabili il suo corpo. 
E tuttavia si rendeva conto, con rammarico, di confondere ciò che i suoi occhi vedevano in quel momento con ciò che avevano visto in passato.  
Il ragazzo era uno dei tanti garzoni al servizio in quella rinomata locanda. Non il più giovane né il più vecchio. Non il più bello né il più sgradevole. Le sue mani, però, lo avevano colpito: le unghie curate e pulite, i calli del duro lavoro limati, la pelle screpolata ammorbidita con una goccia di olio; gli avevano subito ricordato quelle del suo principe, altrettanto attento a questi particolari.
Il garzone gli aveva sorriso mentre gli porgeva la cena. Solo un breve accenno di labbra, malamente nascosto da ciuffi ribelli sfuggiti alla coda sulla nuca, ma Bergen aveva riconosciuto quel gesto discreto. 
Aveva osservato le sue mani, poi la pelle pallida del viso. Lo aveva osservato tanto da farlo arrossire e anche allora le sue guance si erano tinte appena, la più lieve delle sfumature di rosa. Un altro aspetto in comune con il suo principe.
Più tardi, aveva chiesto al locandiere di quel garzone, che gli portasse in camera dell’acqua calda e una caraffa di buon sidro. 
Ora però, mentre le mani del ragazzo cercavano un appiglio nelle sue spalle, Bergen dubitava che il suo principe d’argento le avesse mai avute così curate. Non c’era davvero mai tempo sul campo di battaglia, e comunque i pensieri correvano altrove. E la pelle pallida? Come la neve appena caduta, sì, ma mai lo aveva visto arrossire, di imbarazzo o di collera che fosse. Gli bastava poi abbassare lo sguardo sui capelli sparsi sul cuscino del garzone, neri quanto piume di corvo, per spazzare via qualsiasi sensazione di familiarità. 
“Cavaliere” lo chiamò il ragazzo. Respirava a bocca aperta, sopraffatto, ma c’era una limpidezza nel suo sguardo che reclamava attenzioni. “Cavaliere, posso osare chiamarti mio cavaliere, per una notte?”
Bergen si accorse improvvisamente di quanta intelligenza si nascondesse tra le sfumature di quelle iridi, dietro ciuffi troppo lunghi e ribelli. Non poteva nascondersi e troppo spesso dimenticava quanto la nudità del corpo favorisse anche quella dell’anima, soprattutto di fronte a chi aveva occhi attenti per esplorarla.
Si chinò a porgere un bacio di scuse. “Non osare chiedere ma pretendi, perché mi hai reso tuo per questa notte.”
Sotto le sue, le labbra del ragazzo si schiusero nel più dolce dei sorrisi. “Mio cavaliere”. Ne assaporò subito il suono sulla lingua, per poi pretendere un altro bacio, aperto per lui come un fiore in primavera.
Bergen lo volle più vicino; stringendolo forte tra le braccia, cercò di scoprire quel corpo con l’avidità degli esploratori verso una nuova terra. Seppe ben presto quali lande si scaldassero al più lieve passaggio e su quali, invece, c’era bisogno di un tocco più deciso. Da quali fonti sgorgava miele e da quali ruggiti. Seguì ogni rigagnolo d’acqua finché non divenne un fiume dal corso scrosciante, finché non ci fu nulla da fare se non abbandonarsi al suo impeto. Un ultimo fiotto di vita, prima della calma placida del mare. 

“Un fiume scrosciante. Sì, penso chiamerò così il tuo prossimo orgasmo.”
Adam sollevò lo sguardo dalla pagina per posarlo sul suo saccente quanto piccato fidanzato. Dovette reclinare un bel po’ la testa, ma fu ricompensato dal suo adorabile broncio. “Amore mio, è volutamente poetico, te l’ho già detto.”
“È volutamente pretenzioso, ecco cos’è. È melodrammatico, e anche un po’ bacchettone. Tipo il signor Herbert.” Le sopracciglia si aggrottarono ancora di più. “Sicuro che non l’abbia scritto il signor Herbert?”
“Sono sicuro.” Poche cose inquietavano Adam come il pensiero che il loro amministratore di condominio scrivesse narrativa erotica a quel livello. Aveva controllato.
“Non capisco ancora cosa ci trovi di interessante in questi racconti.” Caleb non pareva voler smettere tanto presto di sparare a zero sulle sue letture preferite.
“Bergen.” Rispose semplicemente Adam. Poi, metà scherzando e metà serio: “Non trovi che sia eccitante?”
La presa intorno alle sue spalle si strinse. 
“No.”
“Affascinante? Tragicamente sensibile? Magnificamente esperto?” Corse rapidamente con lo sguardo tra le righe. “Uno scultore di piacere, scalpellate profonde e tocco delicato?”
“Dio, no!”
Adam rise di cuore, deliziato, mentre dietro di lui il suo fidanzato tremava dalla frustrazione. 
“È solo un cavaliere arrapato e nostalgico! Sarà anche poetico, come dici tu, ma da quando ti piacciono i tipi così? Pensavo di essere io, il tuo tipo.”
“Oh, lo sei, amore mio. Credimi, non sai quanto.”
Caleb sentiva i propri pensieri non riuscire a stare dietro gli uni agli altri. C’era Adam e poi c’era quel dannato libro, Bergen il cavaliere e lo stalliere, l’oste o chiunque fosse quell’altro e accidenti a tutti loro.
“È un modo contorto per dirmi che mi vorresti più… più… così?” Picchiettò un paio di volte sulla pagina. “Dovrei essere più cavalleresco o cosa? Tutto quello che vuoi, dolcezza, ma scordati che mi metta a parlare come Lancillotto mentre stiamo facendo-”
“Ok, basta così.” Adam lo bloccò chiudendo con un tonfo esaustivo il libro. Diamine, gli addominali gli tiravano da impazzire. Si girò nell’abbraccio del fidanzato al meglio delle sue capacità.
Non resistette e dovette rubargli un bacio, prima di parlare. “Tu non devi fare niente. Non devi cambiare, amore mio, sei perfetto così. Non devi neanche leggere con me questi libri, se non ti piacciono. Ed è chiaro che non ti piacciono.” Fermò le proteste imminenti strizzandogli le guance, finché le sue labbra non somigliarono a quelle di un pesce “A me sì invece. Mi piace leggere di Bergen il cavaliere, della sua storia, del suo amore per il principe d’argento e del modo in cui scopa ogni uomo che ha la fortuna di attirare la sua attenzione.”
“Umph.” Disse Caleb, che nella lingua dei pesci significava: “Disapprovo con ogni fibra del mio essere.”
“È solo una fantasia.” Lo baciò fino a fargli passare la voglia di protestare. “Dura il tempo di un libro. Non è certo come te.”
 

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