![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Settimana: 2
Missione: M1
Prompt: Un personaggio si prende cura di un altro personaggio infortunato, malato, e/o bisognoso di conforto
Fandom: Originale
Rating: T
Warning: /
Note: /
Missione: M1
Prompt: Un personaggio si prende cura di un altro personaggio infortunato, malato, e/o bisognoso di conforto
Fandom: Originale
Rating: T
Warning: /
Note: /
Caduta e risalita
La luce accecante si spense come era arrivata, senza preavviso e con un risucchio viscido, umido. Io stesso mi sentivo un quel modo, zuppo dentro di acqua per piatti sporchi. Nauseato.
Sapevo che gli altri erano intorno a me, li sentivo chiamarsi e assicurarsi che stessero tutti bene. Lan preoccupato delle condizioni dello studio di suo padre. Myr isterico per la sua armatura ammaccata. Eppure erano ai bordi, piccoli refoli di vento che bussavano alle finestre, mentre in casa si consumava una tragedia.
Alzai le mani e le osservai con distacco tremare. Non sembravano neanche le mie.
Provai a concentrarmi, come mi aveva istruito maestro Lapas i primi giorni di apprendistato. Non pensare, fallo e basta. Non successe niente.
Riprovai. Pensi forse di camminare quando lo fai? No. Metti semplicemente un piede avanti l’altro e ti muovi. Ancora niente. Le dita continuavano a tremare.
Pensai a quando da piccolo non riuscivo a controllarmi e il mio potere fluiva fuori insieme a qualsiasi emozione più intensa della noia. Sentivo che i miei amici avevano cominciato a chiamarmi per nome, non ottenendo risposta.
“Ilya? Tutto bene, Ilya? Cosa c’è che non va, Ilya?”
Allora spalancai le porte al panico. Me ne lasciai sommergere, mentre trascinava via tutto ciò che incontrava sulla sua strada: raziocinio, autocontrollo, speranza. Non pensai a nessuno di loro, non pensai al disastro che potenzialmente avrei potuto creare nello studio, non pensai a niente che non fosse il bisogno di sentirmi me stesso.
Non accadde niente.
Mi si chiuse la gola. I confini della realtà cominciarono a tremolare, come attraverso la superficie di un lago. Mi scostati con uno strattone da chi tentò di afferrarmi per un braccio, non riconobbi la voce. In qualche modo le gambe, che pure non smettevano di tremare, mi sostennero abbastanza da brancolare fino a una colonna. Poi a quella successiva, poi alla porta. Lasciata quella, inciampai e caddi a terra.
Il tappeto del salone, quel peloso tappeto di molte sciagurate volpi, orgoglio di caccia del padre di Lan. Vi gridai dentro fino a perdere la voce.
Buttai fuori tutto ciò che avevo, che ero, pezzo dopo pezzo alla ricerca di quello mancante. Fui vuoto prima di quanto pensassi, incrinato per sempre.
§
Lavka passò per la terza volta a trovarmi e, per la terza volta, fu talmente sorpresa di vedermi in silenzio e composto, piuttosto che impazzito a demolire la stanza, da farmi i complimenti e chiamarmi “bravo bambino”.
Bravo bambino, come quando non correvo dietro agli altri ragazzini, subito dopo merenda, ma rimanevo indietro per aiutarla a sparecchiare.
Bravo bambino, come quando ero il primo ad addormentarsi di sera e il primo ad alzarsi la mattina, senza capricci.
Bravo bambino, quando non capivo come girava il mondo e non facevo domande.
Aveva portato un altro vassoio di biscotti e una tazza di sidro con il miele. Le ultime due avevano fatto un miracolo per la mia gola, ora potevo quasi deglutire senza l’impressione di mandar giù scaglie di vetro. Dei suoi pastosi biscotti ai fichi, invece, non ce la facevo proprio più. Gli ultimi tre li avevo gettati dalla finestra.
Mi chiese se c’era qualcos’altro che poteva fare per me. Io le chiesi di uscire. Allora mi domandò se volevo un po’ di compagnia. E io le gridai di andarsene, per poi tossire per tre interi minuti. Lavka uscì mormorando che mi avrebbe portato un infuso balsamico più tardi.
Fui tentato di lanciarle dietro il piatto di biscotti. Lei, tutti loro in realtà, continuavano a portarmi parole dolci e bevande calde, come se il problema fosse davvero il mal di gola. O il mal di testa. O le nocche sbucciate.
Mi sarei spellato da solo entrambe le mani, se fosse servito a riavere il mio potere.
Presi la tazza. Mi sembrò di impiegarci ore. Mi sforzavo di rimanere focalizzato sul niente che sentivo dentro di me. Niente era meglio dell’alternativa. C’era un mare di disperazione là fuori, sarebbe bastato poco per annegarci dentro. L'indifferenza era una buona cosa.
Bevvi un sorso e ne risputai la metà nel bicchiere: non era sidro caldo, ma succo d’uva. Per quanto mi riguardava, quei frutti avevano un unico pregio, ovvero diventare vino. Misi da parte tutto il vassoio.
Ora nel vuoto c’era una pizzica di disappunto. Aspettai che si spegnesse per un po’, così da tornare al mio niente, ma quella scintilla proprio non voleva morire.
Lavka sapeva che odiavo il succo d’uva. L'aveva fatto apposta, per forza. E, anche nel remoto caso in cui se ne fosse genuinamente dimenticata, c’erano comunque i miei amici fuori dalla porta a fare i doccioni. Dovevano essere tutti complici.
Mi sollevai faticosamente in piedi, uno scrocchio dopo l’altro. Le ginocchia mi dolevano tanto da non riuscire a distenderle del tutto. Avrei fatto scontare loro anche questo. Va bene, mi ero rifiutato di farli entrare nella camera per ore, ma non per questo erano legittimati a servirmi succo d’uva con l’inganno.
Un passo dopo l’altro - Non pensare, fallo e basta - arrivai alla porta. E la disperazione, tenuta a bada fino a quel momento, mi arrivò alle spalle, a un soffio. Deglutii. Potevo portarmi il vuoto dietro, ma quella sarebbe rimasta lì.
Uscii dalla stanza.