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Settimana: 4
Missione: M2
Prompt: Il viaggio
Titolo: Ferro e zanne
Fandom: Originale
Rating: sfw
Warning: /
Note: /
Capitolo 1
Si può definire il villaggio di Piccobasso come il più pacifico del continente. Il motivo? Nessuno se ne interessa. Nato come un avamposto militare del Regno della Luna nel suo periodo di conquista, è stato dimenticato, spopolato e ripopolato da vagabondi alla ricerca di un posto sicuro. E sicuro lo è: circondato da montagne e foreste maestose, talmente piccolo da comparire a malapena sulle mappe, così lontano da qualsiasi altro centro abitato da rendere un ipotetico viaggio lungo, dispendioso e discutibile. Piccobasso è passato sotto la giurisdizione di cinque diversi regni in cinquant’anni, senza che la cosa pesasse ai suoi abitanti più di una pioggerella estiva.
In effetti, le uniche “minacce”, se così si possono chiamare, che potrebbero disturbare la quotidianità dei paesani sono unicamente interne. Se chiedeste a Mastro Massari, stimato fabbro forgiatore e sindaco di Piccobasso, lui vi risponderebbe che le tre piaghe che più lo preoccupano sono i nevai friabili di marzo, la competizione annuale del taglio del tronco e Clover, apprendista alla sua fucina. Non necessariamente in quest’ordine.
Era usanza collettiva che gli orfani finissero sotto l’ala dei paesani più abbienti, e che in generale fossero responsabilità di tutta la comunità. Non c’erano molti orfani, in ogni caso. Da un paio di decenni a quella parte, solo al povero Clover era toccata quella sfortuna. E a Mastro Massari era toccata la sfortuna di doverlo gestire.
Non che sia un cattivo ragazzo, o uno scansafatiche, o un approfittatore. Clover stima Mastro Massari e il suo lavoro; essere un fabbro come lui è tutto ciò che lo rende felice e a cui ambisce nella vita, ed è indiscutibilmente, maledettamente e senza possibilità di miglioramento una frana nell’esserlo.
Sarà per questo che gli toccano sempre i compiti più facili e noiosi. O per questo che non ha il permesso di avvicinarsi alla fornace principale senza supervisione, né al magazzino dei metalli, né a quello degli utensili, né agli stampi di ghisa. Soprattutto agli stampi di ghisa.
Gliene cade uno di mano proprio in quel momento. Un blocco per i vomeri d’aratro lungo quanto un suo braccio, pesante la metà di lui, si schianta al suolo con il rimbombo di un tuono - solo leggermente più fragoroso dei rumori che solitamente riempiono la fucina. Non lo ha preso in mano, non proprio. Voleva solo scansarlo, per appoggiare il suo di stampo sul tavolo da lavoro.
Il blocco rimane intatto, ma ci manca poco che gli finisce su un piede, e a quel punto ben poche delle sue ossa sarebbero rimaste integre. Clover sobbalza, il fiato incastrato in gola e il dolore fantasma al piede che gli fa venire la pelle d’oca.
Molla lo stampino su cui ha lavorato nell’ultima mezz’ora e si china per raccogliere la forma in ghisa.
Ezra, l’altro apprendista, quello bravo, il favorito, gli passa accanto con un’occhiata di biasimo e nessun cenno d’aiuto. Poi ripassa neanche mezzo minuto dopo e Clover scommette che lo ha fatto apposta, anche se non ha niente da fare in quella zona della fucina, solo per guardarlo arrancare. Cieli, lo stampo per vomeri pesa tantissimo, riesce a malapena ad alzare un lato.
“Mi aiuti?” chiede. Forse se Ezra afferra l’altro lato, riusciranno a sollevarlo quei pochi secondi sufficienti per rimetterlo sul tavolo in pietra.
Peccato che lui abbia altri piani. “Ancora non hai imparato che non devi chiudere gli anelli?”
Clover guarda il suo collega cercando di capire di che diamine parli.
Ezra tiene sollevato il suo lavoro di una mattina con una sola mano, le vene gonfie sottopelle spesse quanto i solchi che ha disegnato sul gesso in tre cerchi allungati. “Come pretendi di fare una catena in questo modo?”
A Clover formicolano le dita. “Lascialo!” e oh, quanto avrebbe voluto non seguire il suo stesso monito. “Ci penso io!”
Il momento successivo ci sono troppi pallini luminosi nel suo campo visivo perché possa distinguere Ezra o la tavoletta. Poi troppe lacrime. Cerca in tutti i modi di spostare la maledetta pietra sul suo piede con tutte le forze e ci rimedia una decina di tagli sui palmi, ma finalmente riesce a far sgusciare la scarpa sul pavimento polveroso. Si siede subito, o magari cade, non si sente molto stabile neanche sull’altro piede al momento, e toglie la scarpa per alleviare la pressione e controllare i danni.
Prega che non si sia rotto niente. Dita o piede rotti significano difficoltà a stare in piedi e muoversi, che significa essere d’intralcio nella fucina - anche più di adesso - che significa essere bandito dalla fucina almeno per un mese. Quindi prega i Cieli e la Signora Verde di non essersi rotto niente, per favore, ti prego, farò il bravo quindi ti prego, ti prego, ti prego.
“Prega piuttosto di non avermi ammaccato il pavimento, ragazzo.”
Una mano grossa quanto la pala del fornaio arriva ad afferrargli la caviglia dolente, con una delicatezza che ti aspetteresti nelle dita del cartaio e di certo non in quelle nere, rugose e piene di calli di Mastro Massari. Nonostante questo, una scossa di dolore attraversa tutta la gamba di Clover e gli fa arricciare le dita del piede.
“Niente di rotto” è la sentenza finale, dopo un paio di caute strette e manovre navigate. “Fatti dare del ghiaccio da Genna.”
Mastro Massari lo rimette in piedi con la stessa facilità con cui posa la lastra di ghisa al suo posto, una facilità invidiabile, soprattutto da parte di Clover.
“Sto bene” dice, “non ho bisogno del ghiaccio.” Il ghiaccio costa sempre di più negli ultimi tempi.
“Senza ghiaccio domani avrai un piede grosso quanto un tacchino.”
“Sto bene, davvero.” Prova a fare qualche saltello dimostrativo, ma cambia idea non appena sposta il peso sul piede incidentato. “Se si gonfia, stanotte dormo con il piede fuori dalla finestra.”
Ezra sbuffa e arriccia la bocca in una smorfia di scherno, ma Mastro Massari sta chiaramente facendo a mente le sue stesse considerazioni economiche sul ghiaccio e, dopo un borbottio, lascia cadere il discorso.
Clover si riappropria del suo stampo per anelli, ma Ezra sta già tornandosene nel suo angolo di fucina, fermato dopo due passi da Mastro Massari.
Lo sferragliare dei martelli sul metallo, le ventole che sbuffano come venti di alta montagna, il crepitio del fuoco, tutto si riduce a rumore di sottofondo quando il padrone della bottega parla, voce tonante e carisma e corporatura da armadio.
“Come alcuni di voi sapranno, abbiamo un nuovo re: Sua Maestà Leandro Lancaster II è salito al trono una settimana fa.”
“Non lo sapevo” ammette Clover, mentre osserva tutti i fabbri e Ezra annuire. La politica non gli è mai interessata, ma è il suo primo cambio di re. Magari farà bene a ricordarselo.
Mastro Massari lo blandisce con un gesto della mano a mo’ di “ora lo sai” e continua il suo discorso.
“Ha deciso come prima cosa di far visita alle corti di tutte le sue provincie, e per arrivare a Porto Dorato passerà di qui.”
A Clover sfugge un verso sorpreso. Non sapeva neanche questo, al contrario, di nuovo, dei suoi colleghi.
“Qui… qui? Vedremo il re?”
“Sì” Mastro Massari fa schioccare i denti, infastidito, “vedremo il re. E lui vedrà Piccobasso, quindi facciamo in modo di lasciare una bella impressione. Nei prossimi giorni forgeremo gli archi da montare sulla strada principale, le giunture per le tribune e il palco e, soprattutto, le frecce cerimoniali da donare al re. Lavoreremo a lungo e sodo. Servirà…” il suo sguardo vola a quel punto su Clover, ed è ancora infastidito, sebbene lui non l’abbia più interrotto. “... l’aiuto di tutti.”
Di tutti. Oh, sì, Clover sente quelle sillabe come stampate sui suoi polpastrelli formicolanti. Non chiede di meglio. Lunga vita al re!
***
Nel frattempo, più a valle
Crescere come lupo nella foresta implica, tra le molte altre cose, sviluppare ben presto una certa resistenza di stomaco. La natura, ahimé, è bellissima quanto disgustosa, piena di dettagli truculenti o mattanze varie, almeno per un civilizzato popolano di città. Quella che per un giovincello qualunque è una fresca carcassa smembrata, calamita di mosche quanto di conati di vomito, per il ragazzo-lupo è il pranzo. Eppure, persino per lui la scena che gli si para di fronte è troppo.
La renna distesa a terra continua ad avere spasmi nonostante la cassa toracica squarciata e più visceri fuori che dentro. Gli occhi sono vitrei, la bocca schiumante di bava grigia. Qualcosa di simile le incrosta gli organi visibili, come una ragnatela mal tessuta che avvolge tessuti e ossa spezzate.
L’odore è indicibile. Costringe i lupi del branco a debita distanza. Nonostante l’olfatto meno fino, neanche il ragazzo-lupo può avvicinarsi; il naso gli prude appena ci prova e anche gli occhi, già restii a fissarsi troppo su quello spettacolo, pizzicano e si fanno lucidi.
Madre lo tira via prima che faccia una sciocchezza, tipo provare a toccare la carcassa. Cerca di impedirgli di avvicinarsi anche a Canta Alla Luna, uggiolante e con le fauci schiumose, circondato dagli anziani preoccupati.
Al ragazzo-lupo non importa di quest’ultimo pericolo. Scansa Madre con attenzione, evitando le ultime ferite ancora in via di guarigione, e si avvicina al suo amico dolorante con le mani - mani da lupo speciale, che possono fare cose che le altre zampe non possono fare - protese. Si ferma prima di toccarlo.
Canta Alla Luna scuote la testa sempre più energicamente. Tende la schiena, si piega in avanti, cerca di rigurgitare.
Il ragazzo-lupo non sa bene cosa fare. Ascolta il dolore di suo fratello e vorrebbe infilare un braccio giù per la sua gola e tirar fuori il male.
È una pessima, pessima idea e, grazie al cielo, c’è ancora abbastanza lucidità in quella testolina spelacchiata per capirlo. E se non ci fosse, c’è sempre Madre.
Le mani continuano ad agitarsi per aria, senza mai raggiungere il pelo maculato, senza mai tornare al loro proprietario. Prende a girare in tondo con gli altri lupi adulti, un cerchio che parla di preoccupazione e istinto di protezione, “non so come aiutarti” e “non riesco a stare fermo” e “non ti lascio solo”.
Dopo un minuto parso una settimana, Canta Alla Luna sputa un grumo di saliva, carne poco digerita e sangue cinereo, e si accascia al suolo. Porta-Regali, la sua compagna per la stagione, è la prima ad avvicinarglisi. Un colpetto di muso contraccambiato fa capire a tutti che il peggio è passato.
Si fa per dire. Il ragazzo-lupo sa che la vertigine che gli alleggerisce il petto è temporanea. Mentre affonda finalmente nella pelliccia di suo fratello, lo sguardo gli cade sulla carcassa dimenticata più in là. Un paio di lupi sono rimasti a controllare la situazione. Ultimo Passo svetta ancora così teso da sembrare pronto al balzo. Tra le onde dei loro manti, il grigiore morboso nella cavità della renna cattura lo sguardo e i pensieri. Quello che il peggio deve ancora arrivare, in particolare, si annida sul cuore e non lo lascia più.
* * *
La sera cala pesante di umidità e inquietudine. La foresta sa. Sanno gli alberi, i piccoli roditori tra le loro fronde e gli insetti nelle cortecce. Sanno gli uccelli di passaggio e i grandi bisonti che la chiamano grembo, casa e tomba. Sa la lince. Sa la volpe. Sa il gufo. Sanno i lupi. Nessuno sa come affrontare quel nuovo pericolo.
Ultimo Passo prenderà una decisione quella notte, il ragazzo-lupo lo capisce da come riunisce il branco nella radura dei cedri e non lascia andare nessuno a caccia. Si assicura che tutti siano nel suo campo visivo, al sicuro, Canta Alla Luna a riposo al suo fianco. Così non deve preoccuparsi per loro, e può pensare alla cosa giusta da fare.
Il ragazzo-lupo teme li farà spostare. Spostare non come quando scendono più a est qualche settimana per fare spazio alla migrazione dei bisonti; ma abbandonare il territorio, la foresta. È la quinta preda che trovano guasta; la prima volta che lo scoprono troppo tardi e un lupo rischia di morire. La malattia ha preso piede nella foresta e si muove senza schema. Colpisce chiunque, prede, predatori, spazzini. Le mandrie sono troppo impaurite per stare ferme e hanno già iniziato a nutrirsi di meno. Nessuno si abbevera più al Fiume Grande.
Presto il cibo scarseggerà anche per il branco, e se così non fosse, ormai il rischio della carne guasta è troppo alto. Ma lasciare il territorio per l’ignoto… Il ragazzo-lupo sa che ci sono altri branchi a sud, con le loro regole e le loro prede. Non li lasceranno restare, mangiare, correre per più di qualche giorno. Dovranno combattere per una nuova foresta e allora ci saranno morti comunque.
“Madre” chiama.
La lupa riposa accanto a lui, con i nuovi cuccioli già belli che ronfanti tutt’attorno. Riconosce la sua voce, quel miscuglio di suoni che emette quando si riferisce proprio a lei, e alza la testa.
Da quando ha imparato il linguaggio degli umani, ogni tanto il ragazzo-lupo lo usa con il suo branco. Anche se loro non capiscono le parole, e non hanno bisogno di parole per capirlo. Le parole, però, aiutano lui a capire sé stesso.
“Ho paura, Madre,” cerca il conforto del suo calore, scansando un cucciolo e prendendo il suo posto contro il torace della lupa.
Il cucciolo guaisce di disappunto, barcolla con gli occhi troppo pesanti per aprirsi, prova a spingerlo via e barcolla di nuovo. Allora gli annusa la gamba e azzarda ad arrampicarsi. Finisce per ribaltarsi come un castoro. Zampe All’Aria.
Il ragazzo-lupo lo solleva e se lo sistema sullo stomaco, contro l’incavo del gomito. Prende ad accarezzarlo con una mano, con l’altra liscia il pelo della coda di Madre quando lei gliela offre. Le piace, quando lui ci passa le dita attraverso.
“Non voglio andare” dice. E “è la nostra foresta” e “la foresta muore.”.
Madre non risponde, è tornata con il muso sulle zampe, si sta addormentando. I cuccioli dormono. Il branco per lo più dorme. Ultimo Passo vigila e pensa.
Allora il ragazzo-lupo si alza, rimettendo Zampe All’Aria al suo posto. Scavalca i suoi fratelli per raggiungere il capobranco, con i suoi occhi ora fissi addosso. Si siede ai suoi piedi e abbassa la testa, aspettando un sospiro tra i capelli che, nel linguaggio del branco, significa “ti ascolto, mio cucciolo strano, puoi abbracciarmi e sbavarmi sul pelo, uggiolare in quei tuoi versi strani e crogiolarti nel fatto che azzannerei un orso alla gola per te”.
E il ragazzo-lupo vorrebbe dire “dammi qualche giorno, voglio provare ad aggiustare le cose” ma i lupi non conoscono il concetto di temporeggiare.
E vorrebbe dire “aspetta prima di partire”, ma è uno spreco di fiato, perché ovvio, non si parte finché non ci sono tutti, il rischio qui è che l’intero branco lo vada a riprendere.
E direbbe “è una cosa che solo io posso fare”, ma basta che si alzi in piedi, dritto come nessun altro lupo sarà mai in grado di stare, e agiti le dita in battaglie immaginarie.
Ultimo Passo gli morde le mani, non è felice.
Il ragazzo-lupo combatte con lui per qualche minuto per riprendersele, mugugna frustrato finché Ultimo Passo non lo atterra tirandolo per una caviglia. Il peso dell’enorme testa felina in mezzo alla schiena lo inchioda a terra.
“Devo andare!” Grida, “fammi andare!” E poi si immobilizza. Quieto, respira la terra sottile, l’odore di argilla e quello di muschio portato dal vento. L’odore di lupo, che è forte quanto quello della corteccia bagnata, ma molto più metallico.
Una lappata sulla nuca è ciò che riceve prima di essere liberato, una benedizione bagnata che gli fa accartocciare le spalle, ma anche desiderare di non sollevarsi più da terra.
Lascia Ultimo Passo senza voltarsi a guardarlo un'ultima volta, perché lui è tutto ciò che si può desiderare in un capobranco e lo fa sentire piccolo, giovane, irresponsabile. Deve essere forte, invece, deve essere implacabile.
Accazzarezza ogni lupo a portata di mano lungo il suo tragitto. Da Madre si ferma un po’ di più, stringendole le braccia al collo fino a inquietarla, salutando ogni fratello, svegliando i cuccioli. Quando punta al limitare della radura, Madre alza la testa preoccupata e fa per seguirlo e riportarlo al suo posto, ma il ringhio di Ultimo Passo è perentorio.
“Torno, giuro che torno” dice, anche se sa che Madre non lo capisce e non ne sarà neanche un minimo confortata. Quando tornerà davvero, non gli permetterà di allontanarsi da lei più di un balzo almeno per un mese.
Lascia la radura, perde di vista il suo branco nella notte. Dopo pochi passi non distingue più i loro respiri. In pochi minuti, è solo nella foresta.
***
Il Fiume Grande è un fiume ed è grande, ma non si chiama davvero così. Per i paesani di Piccobasso e tutti i sudditi del regno che si prendano la briga di leggere quella parte della mappa, il nome è Balzante. In onore delle cascatelle, basse ma frequenti, che lo costellano da monte a valle.
Per i lupi, e tutti gli abitanti della foresta, il fiume non ha nome, è solo acqua che scorre. Si beve e ci si fa il bagno. Luogo di tregua, mai di caccia.
Il ragazzo-lupo ha preso a chiamarlo così nella sua testa, non sa di preciso il perché, ma i suoi pensieri non sono come quelli del branco: a lui serve un modo, nella mente, per distinguerlo dagli altri rigagnoli che bagnano il territorio. Quindi Fiume Grande, e Salta Tra I Castagni, Bagna Prati e Striscia Marrone.
Non ci ha messo molto, prima di dirigersi verso le sue sponde. Ha pensato “cosa farei se fossi renna?” e ha corso tra gli alberi, cercato i cespugli più appetitosi e dormito nell’erba alta. Ha respirato l’aria del sottobosco, fresca e pietrosa. Ha mangiato le bacche purpuree, le più gustose, contendendosele con i roditori. Nella grande distesa d’erba morbida, ha osservato il cielo e sentito freddo; tra mandrie e branchi, un lupo solo e stupido.
Ma non malato.
Non avvelenato dall’aria, né dal cibo, né dalla terra. La vita di una renna non è poi così entusiasmante, sono poche le cose da escludere dalla lista. Era rimasta, invero, solo l’acqua.
Le renne si abbeverano al Fiume Grande, lo sa. Tutte insieme, riempiono le sponde fangose, spingono i giovani in acqua e sbarrano la strada a chiunque. Nessuno degli altri rigagnoli è abbastanza ampio da contenerle in modo soddisfacente.
Il ragazzo-lupo esita solo un momento, prima di assaggiare l’acqua.
Se non è l’acqua, ha finito le idee. Se non è l’acqua, cosa può essere? No, deve essere l’acqua. L’acqua è avvelenata e lui ora la berrà.
Ci inzuppa le dita, attento a mantenere l’equilibrio sulla pietra dove si è inginocchiato. Succhia via qualche goccia. È fresca.
Il suo sapore gli esplode sulla lingua un secondo più tardi. Appena dolciastro, come leccare la pietra di una grotta. Un po’ metallico, come le foglie rosse degli arbusti che crescono sulle piane a nord-ovest. Normale.
Un principio di nausea lo coglie, e non è colpa di un presunto avvelenamento. L’acqua sa di acqua, come sempre. Non c’è nessun sapore nuovo.
Punta gli occhi sull’acqua, scandaglia con lo sguardo fin dove può: il colore è il solito, sia del fiume, sia delle brevi sponde ghiaiose, sia delle piante che ne gradiscono la vicinanza.
Si alza in piedi, percorre qualche passo, prende un altro sorso d’acqua. Riprova più avanti e affonda con i piedi nel letto del fiume. Arranca controcorrente, beve, raggiunge la cascatella più vicina. Beve a bocca aperta come se piovesse.
Si sente affogare.
No, no, no, l’acqua deve… l’acqua è…
Tossisce, chiude la bocca, si sottrae alla cascata barcollando e finisce a carponi. E si ferma. È forse un po’ troppo metallico il sapore che gli invade la bocca? Si lecca le labbra, lentamente. Non se lo sta immaginando. C’è troppo metallo in quell’acqua, non è come al solito.
Può essere un caso. Quando gli abitanti del villaggio provarono ad aprire una nuova cava sulla montagna, l’acqua ebbe il sapore delle tagliole per mesi, un sapore simile a quello.
Il ragazzo-lupo punta lo sguardo a nord, tra gli alberi, dove molto più su sorge il villaggio degli uomini. Avevano già contaminato l’acqua una volta. Ora, sono la sua migliore pista.
***
Ha risalito il Fiume Grande in mezza giornata, senza incrociare altri animali. Gli unici incontri che ha fatto sono stati con un paio di gusci colorati - roba degli uomini del villaggio, ma non saprebbe proprio dire cosa siano o a cosa servono - che galleggiano sull’acqua seguendo la corrente. Si è fermato a mangiare dei frutti asprigni e una manciata di bacche, strappate a un cespuglio di rovi in cambio di una striscia di sangue.
Non ha più bevuto l’acqua del fiume. Dopo il sapore dolce delle more, quello metallico dell’acqua l’ha distinto a meraviglia. E più strada ha macinato dietro di sé, più si è fatto forte.
Dietro un’ultima macchia di lecci, finalmente arriva a vedere il villaggio.
Il fiume si immerge nella foresta con una curva larga, dopo aver attraversato un centinaio di passi di campi coltivati, un muretto in pietra e altri campi, più brevi e rigogliosi. Le case cominciano a spuntare dal terreno a quel punto, e si arrampicano sul pendio della montagna per duecento, o forse trecento, passi. Dall’altra parte del paese, appena visibile da quella distanza, un filo azzurro corre alla sorgente, mentre poco distante un altro fiume, bianco e sterile, lascia le case e scompare tra due picchi.
Sebbene sia ormai certo che il fiume sia avvelenato e che i responsabili siano gli uomini, quella è una conoscenza che non gli serve a niente se fine a sé stessa. Deve trovare la causa precisa della malattia e deve toglierla dal fiume. E, per farlo, deve entrare nel villaggio.
Un dolore fantasma gli batte sulla schiena.
Il ragazzo-lupo si muove sotto i lecci, sgranchisce le gambe, cerca di raggiungere la zona dolente.
Non si avvicina così tanto da quando ha imparato a usare le parole. Da quando ha smesso di credere che rubare il cibo agli uomini sia più facile e più sicuro. Ora è più grande, più maturo, un giovane lupo. Conosce i pericoli e li eviterà, perché il suo branco ha bisogno di questo.
Attraversare i campi senza essere notato non è difficile. Il grano è quasi maturo, se si acquatta lo sovrasta completamente. Anche il muretto, sebbene scoperto, non è un ostacolo degno di questo nome: il giorno ormai al termine allunga le ombre e nasconde il passaggio del ragazzo-lupo dall’altra parte, rapido e silenzioso.
La terra scura è un problema, invece. È per lui strana oltre ogni dire, con quelle piante dagli odori forti disposte in file precise e tutta terra incolta intorno, ma soprattutto è senza nascondigli e quasi sempre sorvegliata.
Decide di aspettare che il sole scompaia del tutto. Gli uomini non sono animali notturni. Con il buio, smetteranno di lavorare i loro campi e sarà facile scivolare tra le ombre fin dentro il villaggio. Sarà come cacciare.
***
Non ci sono ronde notturne a Piccobasso. A che servirebbero? Non c’è proprio niente di valore da rubare, non passano banditi da quelle parti, non passa proprio nessuno salvo rare eccezioni. E per tenere lontani gli animali bastano i recinti e i lampioni lasciati accesi sulle strade principali.
Ciò facilita di molto la missione del ragazzo-lupo che, ammantato di notte e di silenzio, segue il fiume dentro il villaggio, tenendosi ben alla larga dai pali incoronati di fuoco e dai pochi uomini barcollanti che vede ciondolare da una porta all’altra.
Il fiume è molto più piccolo e profondo, ora, con un letto di pietra e sponde severe e serpeggia tra le case con curve troppo strette per essere naturali. A non più di cinquanta passi dall’inizio del villaggio, un enorme ammasso di legno lo sovrasta.
Gli pare di ricordare si chiami ruota, ma non ha idea di cosa ci stia a fare sopra il fiume. L’acqua ci si arrampica sopra e la fa girare.
Il ragazzo-lupo la studia per un po’. Assaggia di nuovo l’acqua, attento a non farsi trascinare tra le pale, e cerca di grattare anche qualche scheggia di legno. Non gli sembra ci sia niente di strano. La ruota è attaccata a un grande tronco che esce da una casa di pietra, ma non ci sono aperture, nessun canale che finisca nel fiume, nessun sasso strano o arnese pericoloso.
Dopo appena un palmo di cammino di luna, lascia perdere e continua a seguire il fiume.
Incontra un’altra ruota. E poi un’altra. La terza si guadagna la sua attenzione per più tempo: c’è un canale, vicino alle pale, che unisce il fiume alla casa di pietra. È umido e scivoloso, c’è un rigagnolo. Il ragazzo-lupo raccoglie due gocce sulle dita e se le infila in bocca. Sputa quasi immediatamente: il sapore ferroso è così forte che potrebbero convincerlo di aver appena assaggiato del sangue.
Una strana euforia, magari fuori luogo, lo pervade da capo a piedi. Eccolo. È molto più che sulla buona strada. È vicino.
Si guarda intorno, per quanto la luna e il fuoco lontano gli permettano. Non ci sono occhi a osservarlo. I rumori sono lontani. I buchi nelle case sono sbarrati, sebbene le fessure lascino passare sibili di vita e calore.
Tende l’orecchio anche verso il canale aperto, cercando di cogliere un qualsiasi rumore. Non vede niente dell’interno.
Esita solo un momento. Non gli piace infilarsi nei buchi, odia dare la caccia alle volpi. La terra sopra la testa è soffocante. La pietra, quella pietra, è soffocante e pericolosa.
Pensa a Madre, a Zampe All’Aria e agli altri cuccioli, a Canta Alla Luna e a Ultimo Passo.
Scivola dentro il canale con un più facilità del previsto, muffa e acqua che lo aiutano. In pochi secondi è dall’altra parte.
Non sa cosa aspettarsi dentro la casa. Non è mai… non ricorda… di essere mai entrato in una di quelle. O forse sì, ma non ricorda niente di quel poco che vede ora.
Tavoli di legno. Metallo. Rami-no, bastoni di ferro. Pietra grezza, pietra liscia. Stoffa ruvida e pregna di sudore. E un’enorme brace, quasi spenta ma ancora calda, sulla parete alla sua sinistra. È quel tipo di calore che gli fa rizzare i peli sulle braccia, e formicolare la schiena tanto da desiderare un albero su cui scorticarsi.
L’oscurità non gli permette di vedere altro. A bloccarlo sul posto, però, prima di poter iniziare davvero ad ispezionare l’ambiente, è un respiro rumoroso e profondo, quasi un sospiro. Viene dal fondo del locale, dove quello che ha scambiato per un ammasso di coperte è appoggiato a un tavolo ricoperto di corteccia chiara.
L’ammasso di coperte si solleva e si abbassa e di tanto in tanto rantola. C’è qualcosa di vivo là sotto, addormentato ma potenzialmente pericoloso.
Il ragazzo-lupo si avvicina con più cautela che può, cercando di sbirciare tra le pieghe della lana.
È un ragazzo. È giovane. È… quasi come affacciarsi sulle acque di un lago dopo una stagione di migrazione: noti delle differenze, ma il disegno alla base è rimasto lo stesso.
Ormai ha visto molti uomini in vita sua, ma è la prima volta che sente di essere simile a uno di loro.